Sogni, sentimenti e fallimenti nell'America di Lyndon B. Johnson, quando negli anni Sessanta anche la più idilliaca delle famiglie naufragava sugli scogli della politica, andando in pezzi mentre i figli contestavano i padri. E sceglie Pastorale americana (Einaudi), romanzo di Philip Roth vincitore, nel 1997, del premio Pulitzer, il divo scozzese Ewan McGregor, classe 1971, per esordire dietro la macchina da presa con il drammatico racconto d'una disillusione profonda, rispetto all'American Dream. Il suo American Pastoral in odore di Oscar (in sala dal 20), narra infatti di un padre impeccabile (lo stesso McGregor), lo "Svedese" alto e calmo che si è fatto da sé, producendo morbidi guanti per signora, che vede sua figlia, un'adorabile biondina balbuziente (Dakota Fanning) diventare una bombarola alla Patricia Hearst. Una che porta l'inferno in casa sua, nel paesino del New Jersey dove piazza un ordigno all'ufficio postale, ammazzando un innocente. E tra le quattro pareti domestiche, dove la madre, ex-reginetta di bellezza (Jennifer Connelly) si aggira demente, dopo che la figlia è entrata in clandestinità, sparendo nel gorgo dell'attivismo "leftist". Un tema complesso; un libro impossibile "di quattrocento pagine, che termina con un punto interrogativo", (così il New Yorker) da rendere sullo schermo e Roth non è fatto per il cinema e un attore, regista e produttore di Perth, che dopo aver cantato in Moulin Rouge (2001) con la Kidman ed essersi fatto conoscere con Trainspotting (1996), gioca la carta del cinema d'autore.
Come è arrivato a uno dei racconti più interessanti del XX secolo, per farne un film?
"Per la verità, non conoscevo il capolavoro di Philip Roth. Ma quando ho letto il copione, senza sapere nulla del libro, mi sono commosso fino alle lacrime. Sono padre di quattro figlie e il film è su una famiglia che perde la figlia nel modo peggiore. Ne è venuto fuori un film che esplora il sogno americano della generazione post-bellica".
In 25 anni di carriera ha girato con registi importanti, da Danny Boyle a George Lucas, che l'ha scelta per il prequel della trilogia di Guerre stellari. Che cosa ha imparato da loro?
"Da tutti ho preso qualcosa. L'attore è privilegiato, perché può osservare il lavoro di chi lo dirige. Ci sono soltanto cose che funzionano e altre che non funzionano. Da regista, ho appreso il dietro le quinte: le liti nella troupe, per esempio. Ho imparato che il regista scopre le paure degli altri e, alla sera, se le porta a casa. E non ha nessuno che lo tranquillizzi".
Che cosa le ha lasciato questa prima esperienza dietro la macchina da presa?
"Dirigere American Pastoral mi ha cambiato la vita. Erano anni che volevo girare un mio film e, finalmente, occupandomi della parte manageriale, ho imparato che fare un film è frutto della collaborazione tra tante persone. E io amo la magia che si crea su un set cinematografico. Sono un attore e mi è piaciuto costruire tutte le scene insieme agli altri attori. Non potevo avere esperienza più felice".
Come si è calato nella parte dello "Svedese", il perfetto "all american" che, come gli rimprovera la figlia ribelle, non ha letto Marx?
"Ho usato la mia esperienza di padre. Se fai un serial killer, è logico che attingi all'immaginazione. In questo caso, ho potuto ricorrere al mio vissuto".
Nel suo film si parla anche di radicalizzazione e di come si possano perdere i figli per questo. Argomento attuale.
"Certo. Lo Svedese entra in rotta di collisione con sua figlia, che a un certo punto sceglie la lotta politica estrema, sullo sfondo della rivolta dei neri. Qualcosa che può ricordare la situazione attuale, con i diversi aspetti del terrorismo. Ma non è intenzionale".
A che punto è il sequel di Trainspotting,
ancora diretto da Danny Boyle e con lo stesso cast del primo film, 72 milioni di dollari incassati nel mondo?"Comincerò a girare quest'estate e la sceneggiatura è straordinaria. Di sicuro, non sarà un sequel e basta".
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.