L'Italia, l'America e la scrittura. Alla parata con Gay Talese

Il guru del New Journalism si racconta: "È un mondo di scribacchini solitari. I registratori? Una rovina"

L'Italia, l'America e la scrittura. Alla parata con Gay Talese

Gay Talese mi dice che gli sembra strano non iniziare un lunedì mattina nel bunker. È così che chiama il posto in cui lavora, a Manhattan. A ottantacinque anni, lo scrittore e giornalista non ha perso nulla della propria formidabile disciplina. Il suo libro del 2016, The Voyeur's Motel, è stato acquistato da Hollywood per farne un film, e i suoi progetti attuali includono un nuovo servizio su Frank Sinatra, scritto con Pete Hamill. «Ma oggi - continua - si tratta di qualcosa di speciale. È un onore essere qui».

Talese ha abbandonato la propria scrivania per la Columbus Day Parade di New York. Il Grand Marshal quest'anno è il capo di Barnes & Noble, e per condurre le celebrazioni sono stati invitati un centinaio di scrittori italo-americani. Talese è forse il più celebre, e senza dubbio quello meglio vestito. Il suo abito grigio su misura strapperebbe un sorriso al padre sarto, e il suo Fedora è ancora più notevole, verde lime, lo stesso colore del manico del suo ombrello, un accessorio essenziale in un giorno piovigginoso d'ottobre. Per l'intervista, da conoscitore del posto qual è, Talese ha trovato un angolo riservato sotto un ponteggio di un edificio in costruzione.

Si anima, anche, mentre punta il proprio ombrello in direzione del carro da parata. Solo pochi scrittori sono autorizzati a guidarlo, e fra questi Talese. Ciononostante, ha dei dubbi sulle decorazioni. «Nella mia famiglia - spiega - non avremmo saputo che farcene».

Il carro assomiglia a una libreria, e i volumi dipinti recano nomi come Dante e Machiavelli. «La mia famiglia era come la grande maggioranza delle persone del Sud Italia. Non eravamo persone di lettere». È la stessa definizione che ha usato in un noto saggio del 1993. In un articolo sul New York Times, si chiese perché il suo gruppo etnico mancasse di autori famosi come invece capitava agli ebrei o agli afroamericani, scrittori come Philip Roth o Toni Morrison. Conosco quel brano, e cerco di suggerirgli che dal '93 Don DeLillo è entrato a far parte dell'élite della letteratura ma Talese si limita a scrollare le spalle. «Negli anni '70 - risponde - avevamo Mario Puzo, che era forse lo scrittore più famoso del mondo in quel periodo. Ma nessuna delle persone che lavoravano nell'editoria erano italiane, e nessuno dei principali recensori di libri, e non hanno mai preso Puzo sul serio. Per quanto mi sembra, non è cambiato granché». Ancora una volta gesticola verso il carro, spingendo l'ombrello tra i passanti. «Così poco è cambiato, che quell'affare è troppo grande per noi».

Scrivere è condividere, raccontare a uno sconosciuto i tuoi segreti, e per il vecchio italiano immigrato di New York, questo era impensabile. «Noi eravamo gli estranei, la minoranza, a cui veniva insegnato a tenere le bocche chiuse, a integrarci, a non farci notare».

La sua generazione, secondo Talese, aveva due modelli eccezionali: Joe DiMaggio e Frank Sinatra. «Per entrambi l'obiettivo era lo stesso: entrare a far parte del mainstream americano. DiMaggio era molto attento a riguardo, aveva delle regole su come potesse essere fotografato e Sinatra cantò I classici americani. La prima volta che comparve in un film, vestiva un'uniforme da marine e ballava con Gene Kelly».

«Ricordati - continua Talese - quando questi uomini diventarono famosi, l'Italia era il nemico. I fratelli di mio padre avevano combattuto per Mussolini».

Nessuno che abbia vissuto così, fra due culture, può non aver vissuto ciò che Talese chiama la solitudine. Gli sembra di avvertire quell'antico disagio anche nella sfilata di oggi.

«Il tutto si riduce a un branco di scribacchini solitari», dice. Sorride, soddisfatto della propria battuta. Quando gli suggerisco che per gli italiani di oggi parecchie cose sono cambiate, scrolla le spalle e annuisce. «I ragazzini istruiti del XXI secolo non capirebbero di cosa sto parlando. Sono uno degli ultimi che sono cresciuti senza sapere da che parte stava».

Ma Talese rimane attento a tutto ciò che ancora non è cambiato. «Anche oggi, quando vedi un italiano nei notiziari, è quasi sempre un gangster. Se la notizia non riguarda la mafia, allora si tratta di un attore dei film. Il padrino non ha smesso di catturare l'attenzione».

Questo richiama alla memoria il suo libro sulla mafia, Onora il padre, famoso per il ritratto molto dettagliato della famiglia criminale dei Bonanno di New York. Un certo numero di episodi di Talese, come le stravaganti scene di matrimonio, potrebbero essere state dei modelli per Coppola. «Ma io non ci ho avuto nulla a che fare - insiste - Penso che Il padrino sia semplicemente grandioso, e che differenza fa se hanno usato il materiale sui Bonanno? Ho scritto molti libri su diversi argomenti. Nel momento in cui stavano girando quel film, stavo lavorando a qualcosa di diverso».

Per Talese ogni progetto richiede un impegno totale. Quando gli chiedo del New Journalism degli anni '60, quando lui e altri come Tom Wolfe regalarono una nuova freschezza all'arte del reportage, afferma che tutto dipendeva in realtà dalle virtù più antiche del mestiere e cioè farsi trovare nei paraggi e parlare direttamente con le persone. Quel pensiero lo ravviva e sbatte l'ombrello sul pavimento. «Un buon reportage significa sgambettare, far andare le gambe».

Troppi scrittori in questi giorni, si lamenta, «si perdono nei loro computer portatili. Ricavano le loro storie da Google, il che significa che ciò che riferiscono è qualcosa che è stato in precedenza affidato alle pubbliche relazioni». Viene in mente ciò che Donald Trump chiama notizie false, e quando glielo dico, Talese fa una smorfia. Aggiunge: «Non si tratta solo di Trump. Anche Obama ha cercato di diffondere un paio di storie. E comunque, il problema sono le persone che accettano ciò che gli viene raccontato senza contestarlo. Invece di uscire e di svolgere il proprio lavoro, si limitano a raccogliere cose sentite - Talese si piega verso di me, deciso e afferma - Il registratore ha rovinato un sacco di buon giornalismo. Il registratore rende uno scrittore sbadato. Non guarda, non ascolta.

Nel 1965 ho scritto Frank Sinatra ha un raffreddore e recentemente Esquire l'ha votato come il miglior reportage mai pubblicato... e non ho mai usato un registratore. Una macchina non avrebbe mai potuto fare ciò che fui costretto a fare».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica