Cultura e Spettacoli

Da matrimoni infelici nascono felici romanzi

Rick Moody narra le sue due vite: ma è quella smodata e instabile a produrre pagine migliori

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Diciamo la verità: in letteratura non c'è niente di più noioso di un matrimonio felice. Non per altro sia Emma Bovary che Anna Karenina finiscono suicide, e «bovarismo» è diventato il termine con cui identifichiamo quella particolare insoddiSfazione e smania femminile legata alla noia matrimoniale (oggi Flaubert sarebbe accusato di essere sessista, se non l'hanno già fatto, non posso seguire tutte le messe al bando del politicamente corretto che nascono come fiori ogni giorno sul letame della cancel culture).

Ai nostri tempi, per fortuna, è difficile che una donna si suicidi per insoddisfazione matrimoniale, anche perché si fa prima a divorziare e trovarsi un nuovo uomo (e una nuova donna dall'altra parte) con cui essere infelici, ma resta il fatto che, letterariamente, della felicità altrui non ce ne può fregare di meno (in realtà neppure della bontà, come ammise Dostoevskij quando, dopo aver scritto L'idiota, ammise l'impossibilità di scrivere un romanzo su un uomo buono, e probabilmente è il motivo per cui le biografie di Hitler sono sempre andate a ruba).

Detto questo, Rick Moody è sempre stato uno scrittore interessante, fin dal suo Rosso americano, e dunque anche il suo nuovo libro, intitolato La lunga impresa (La Nave di Teseo, pag. 320, euro 20) attira non poco, soprattutto per il sottotitolo: «Storia del mio matrimonio». Il problema è che di matrimoni ce ne racconta due: uno interessante, quello fallito (e dunque narrativamente riuscito), e uno noioso, quello che lo ha portato alla felicità. Suggerisco di leggere solo la prima parte, quella disastrosa, bellissima. Cioè quando Moody era un autore alcolizzato e promiscuo e umanamente stronzo ma creativo, l'autoconfessione di vivere sull'orlo del disastro e cercare di tenere in piedi un matrimonio, dal quale avrà anche una figlia.

È una sorta di analisi della catastrofe di essere artisti e al contempo dei buoni mariti, delle persone che accettano il patto sociale. Tipo, sentite qui: «Giustificavo la mia condotta con le solite scuse: Era ottimo materiale, e avevo bisogno di vivere appassionatamente per scrivere appassionatamente. E così una volta tentai di avere un rapporto sessuale in un caffè affollato (senza che nessuno se ne accorgesse), andai in un locale transgender, accettai di venire picchiato, feci sesso telefonico a pagamento in una comunità di scrittori (...), il mio motto, in un certo scompartimento dell'io scisso, era basta che respiri».

Interessanti poi anche le riflessioni sul divorzio, che «è come una chirurgia di guerra, è come la chirurgia sul campo, è come l'amputazione sul campo, senza oppiacei, o come guardare parti del corpo che si staccano e volano via sotto i nostri occhi, e tentare di recuperarle prima di trascinarsi barcollanti dal chirurgo di campo, e quello che va perduto è l'idea stessa dell'amore, della fede e della fiducia». Il racconto del suo divorzio è una splendida «guerra dei Roses», con l'ex moglie che vuole farlo a fettine (anche giustamente, però ti sei sposata Moody che era così, non è che puoi trasformarlo in un impiegato di banca, cara).

Moody racconta come il suo amore, il suo primo matrimonio, a causa della sua vita artistica e sregolata, si trasforma in odio, e noi stiamo lì avidi a vedere quel che succede, come la sua ex moglie lo vuole fare a pezzi e annientare e umiliare e portargli via tutto quello che può, come spesso succede. «Nel divorzio, è la persona con cui un tempo hai scambiato le solenni promesse coniugali a prometterti qualcosa di diametralmente opposto: voglio che il tuo futuro sia incerto, spero che da qui in avanti tutto ti vada male».

Dopodiché inizia la narrazione del suo matrimonio felice, della «redenzione», come la chiama Moody, che se nella sua vita è bella, e siamo contentissimi per lui, da leggere lo è meno, per i motivi suddetti, perché sconfina nel diarismo di una persona felice, e nessuno vuole leggere davvero il diario di una persona felice (forse giusto Massimo Gramellini o Fabio Fazio, che sentimentalmente sono la stessa persona, credo). D'altra parte è proprio questo il motivo per cui I promessi sposi sono un capolavoro finché c'è Don Rodrigo, mentre quando alla fine riescono a sposarsi, e a vivere felici e contenti, giustamente Manzoni fa finire il romanzo, della vita di Renzo e Lucia, senza Don Rodrigo di mezzo, non ce ne frega più niente.

Che poi siano vissuti veramente felici e contenti chi lo sa (ci vorrebbe un seguito, ma solo se si prendono a rastrellate nella stalla), ma è anche probabile: senza il grande Don Rodrigo erano solo due contadinotti fessi su cui non ci sarebbe stato niente da dire.

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