Morto Celant, teoria e prassi dell'arte fra rivolta e potere

Nel '68 lanciò i "poveristi" sovvertendo le regole dello spazio museale. Poi dettò la linea al mercato

Lo storico e critico d'arte Germano Celant
Lo storico e critico d'arte Germano Celant

Un lutto tremendo per il mondo dell'arte. Simbolico, anche, della fine di un'epoca che ha dominato a lungo, dettando tendenze molto precise e stabilendo i valori del mercato. Ucciso dal Covid-19, ieri è scomparso Germano Celant, al San Raffaele di Milano dove era ricoverato da alcune settimane.

Dal 1967, anno in cui fondò l'Arte Povera, è stato il critico d'arte e curatore italiano più influente al mondo. Non dimostrava affatto 80 anni: lunghi capelli bianchi, sempre vestito di nero, anelli alle dita, lo hanno reso in qualche modo una figura senza tempo. Il suo addio chiude davvero il '900 e pone la prima domanda che sorge spontanea: l'arte sarà capace di reinventarsi con quella stessa potenza e forza, con regole completamente nuove? O forse sarà proprio la necessità contingente a scompaginare tutto, magari inventandosi una vera e propria rivoluzione, proprio come accadde poco prima del Sessantotto?

Il manifesto dell'Arte Povera portava come sottotitolo «Appunti per una guerriglia», per un'idea di cultura sì fortemente ideologizzata, ma che ebbe il coraggio di incontrare la vita vera e la piazza, diventando happening, performance, teatro, corpo, poesia. La prima uscita dell'Arte Povera fu a Genova - la città in cui Celant era nato nel 1940 - alla Galleria La Bertesca nel 1967. Bastò un solo anno per compiere una rivoluzione formale: occupando l'arsenale di Amalfi, Celant inscenò Arte Povera + Azioni Povere, sovvertendo le regole dello spazio museale e ampliando l'esperienza in città fino al mare. Fu subito chiaro che la proposta dei giovani italiani si sarebbe estesa su scala internazionale, coeve al Minimalismo e alla Land Art di oltre oceano.

Va detto: Germano Celant ha cambiato la vita e la carriera di una ventina di artisti. Prima di lui Mario Merz, il più vecchio del gruppo, giungeva dalla pittura di matrice informale, come Michelangelo Pistoletto, che scoprì gli Specchi allontanandosi dalle figure in stile Bacon. Il gruppo (inizialmente fluido, poi rigidissimo) aveva una forte anima torinese, dove l'industria la faceva da padrona insieme alle forti contestazioni: Mario e Marisa Merz, Paolini, Pistoletto, Boetti (poi trasferitosi a Roma), Zorio, Penone, Anselmo operavano a Torino. Uniche eccezioni, Luciano Fabro a Milano, Jannis Kounellis a Roma.

Nata ribelle e guerrigliera, l'Arte Povera incarna in pieno la stagione politico-culturale del Sessanotto, salita presto nella stanza dei bottoni (non solo dell'arte) per dominare la scena lasciando men che le briciole. Quando nel 1984 apre il Castello di Rivoli, primo museo pubblico italiano dedicato al contemporaneo, l'Arte Povera costruisce il proprio regno imponendosi a livello internazionale come ultimo grande movimento italiano, rovesciando l'assunto combattivo degli esordi in un regime fortemente elitario ed esclusivo. Il mercato lo ha capito e le quotazioni di tutti i poveristi sono salite.

Sarebbe però riduttivo identificare Germano Celant soltanto con l'Arte Povera. La sua curiosità intellettuale era vorace, aveva studiato con Eugenio Battisti e conosceva perfettamente il New American Cinema, l'underground è stata la sua passione giovanile e certa fotografia quella della maturità. Celant si è inoltre dedicato allo studio di altre grandi figure dell'arte italiana: Manzoni, Castellani, Rotella, Vedova e di recente Isgrò.

Il curriculum non ha uguali e quando c'era da fare il punto sull'arte italiana lo sguardo che contava era soltanto il suo: al Guggenheim di New York, al Pompidou di Parigi, alla Royal Academy di Londra, a Palazzo Grassi a Venezia ha realizzato mostre memorabili che continuano a fare testo. Nel '97 ha diretto la Biennale di Venezia, nel 2004 a Genova realizza «Arti & Architettura» e «Art & Food» per Expo 2015 alla Triennale di Milano.

L'ultima fase di questa straordinaria carriera coincide con la direzione artistica della Fondazione Prada che culmina nell'apertura del nuovo spazio ideato e progettato da Rem Koolhaas nel 2015. Che siano curate direttamente da Celant o realizzate sotto la sua supervisione, non sfugge mai in quelle mostre il criterio di eccellenza, il rigore filologico premiato come sempre dal mercato. Celant tracciava la linea: ciò che era dentro andava bene, quel che rimaneva fuori non esisteva.

Da oggi all'arte italiana manca un pilastro, il venerato maestro per antonomasia. Solo Achille Bonito Oliva, a tratti e con altro carattere, ha diviso con lui il podio. E non lascia eredi, poiché le generazioni dopo di lui hanno dovuto scegliere tra lo studioso d'eccezione e il critico globe-trotter per cui contano le relazioni e i rapporti.

Celant invece funzionava da catalizzatore, inarrivabile per buona parte degli umani, difficilissimo strappargli un sorriso o una battuta simpatica. La sua lezione resta nelle centinaia di volumi e cataloghi di mostre da cui abbiamo sempre e solo imparato.

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