Cultura e Spettacoli

Naipaul alle prese col mondo. Fra ragione e sentimento

Nei suoi scritti di viaggio i "cuori periferici" di India e Africa, il disincanto e il fascino per la barbarie, le ombre dentro di sé

Naipaul alle prese col mondo. Fra ragione e sentimento

Lo scrittore e il mondo (Adelphi, traduzione di Valeria Gattei, pagg. 536, euro 45), di V.S. Naipaul, è un ossimoro in forma di libro. Racconta dei «cuori periferici» dell'India e dell'Africa, dell'America latina e delle Antille, insegue un'idea di «civiltà universale», è la testimonianza di uno scrittore «occidentale e coloniale»... Costruito come un'esplorazione, rilancia e dilata quelli che sono i temi costanti di questo scrittore: la paura e il fascino della barbarie, il vuoto di chi è senza radici e i pericoli dell'identità, l'isteria filosofica-religiosa e l'industrializzazione coatta. Naipaul stesso, lo abbiamo prima accennato, è un ossimoro, il prodigioso tentativo di conciliare il bambino nato a Trinidad da genitori indù, con il baronetto di pelle scura della sua educazione britannica: «Davo per scontato, nonostante le mie origini e l'ambiente in cui ero cresciuto, che un'altra parte di me, altrettanto significativa, appartenesse a una civiltà più grande».

È difficile dire, in questo percorso intellettuale, quanto e se l'artificialità confini e/o sconfini nell'autenticità, ma è un dato di fatto che le cose più interessanti della prosa di Naipaul provengono proprio dallo scontro fra sentimento e ragione, la capacità di guardare con disincanto misto a raccapriccio ciò da cui sia pure con sofferenza si è distaccato. Il limite dell'India, osserva, «sta proprio lì, nel non lasciarsi comprendere. Accettare il mistero significa giustificare o ignorare la resa dell'intelletto. Significa cadere nella trappola indiana, presumere che la povertà della terra debba estendersi anche alla mente delle persone. Significa, in effetti, limitarsi al semplice stupore». Allo stesso modo, la sua condizione di «scrittore delle colonie», nel senso anagrafico del termine, gli permette una lucidità intellettuale di gran lunga superiore ai teorici della decolonizzazione e agli alfieri di nazionalismi tanto spuri quanto inesistenti: «Alla fine, si ritrovano al punto di partenza; con una colonia agricola, creata dall'impero in un'isola deserta e sempre considerata parte di qualcosa di più grande, ora omaggiata della cosiddetta indipendenza e mandata alla deriva, un recinto di schiavi dell'impero, abbandonato e incapace d'autonomia economica e culturale». Il riferimento è a Mauritius, vale anche per Grenada o per la Guyana, ma, paradossalmente, può estendersi all'Argentina, nel suo irrisolto conflitto di sentirsi Europa e non poterlo essere, di essere America del Sud, ma avendone estirpate le radici: «Essere europei in Argentina voleva dire essere coloniali nel modo più deleterio. Voleva dire essere parassiti». E ancora. «La ricchezza dell'Argentina sta nella terra, ma nessuno considera questa terra la propria casa. La casa è altrove: Buenos Aires, l'Inghilterra, l'Italia, la Spagna. Puoi vivere in Argentina, dicono molti argentini, solo a condizione di potertene andare».

In Africa, queste contraddizioni si fanno ancora più evidenti, perché la decolonizzazione affonda nelle sabbie mobili della «confusione mentale creata dall'autenticità, che ora dà un'illusione di potere», ma che «chiude di nuovo le porte del mondo e fa presagire un futuro di disperazione ancora più profonda. Avere la percezione di un Paese intrappolato e statico, permanentemente vulnerabile, significa cominciare a comprendere il senso africano del vuoto. Significa cadere, alla maniera africana, nel sogno di un passato il vuoto del fiume e della foresta, la capanna nel cortile scuro, la piroga - in cui gli antenati defunti vegliavano e proteggevano, e i nemici erano soltanto uomini». Significa anche prendere atto della «brutta arte dell'Africa moderna: un'arte senza più alcuno scopo religioso e magico, che si cimenta con un modo di rappresentare alieno e diventa manierata e priva di significato, facendo pensare a una doppia imitazione: un'arte africana che copia se stessa, copiando l'arte occidentale di ispirazione africana».

In Dark Star Safari, Paul Theroux ha scritto che il giudizio negativo di Naipaul sull'Africa è in realtà un pregiudizio «dato dalla paura che, solitario bambino indù nella nera Trinidad, aveva conosciuto. Rigido, con una paura indiano-trinidense del bush, della boscaglia, non capì mai che il bush è benigno. L'Africa lo terrorizzò, così malamente egli la maledisse, desiderando questo male fino a che divenne un facile Mantra che i lettori ignoranti potevano applaudire: L'Africa non ha futuro». È possibile, ma è anche vero che, a differenza di Theroux, che da americano si era costruito in Africa una «sua» Africa, a Naipaul questa costruzione risultava impossibile, come del resto gli si è rivelato impossibile creare una «propria» India. Naipaul è affascinato e spaventato dai riti, dalle magie, dai sacrifici, dal mistero e dagli spiriti dell'Africa perché li conosce, li ha sperimentati per interposta persona nella sua vita infantile: pur nella diversità che separa il subcontinente indiano dal continente nero si muovono su un percorso simile. Nel «Prologo a un'autobiografia» che apre I coccodrilli di Yamoussoukro, testo che faceva parte dell'edizione originale di The Writer and the World, c'è l'immagine della smorfia folle di Naipaul padre, laico e progressista giornalista di Trinidad, mentre solleva sulla testa i brandelli sanguinanti della capra da lui sgozzata in un rito sacrificale in onore della dea Kalì. Una cerimonia che in un articolo aveva definito «una sconcertante pratica superstiziosa» e che poi però si trova a dover compiere suo malgrado, perché così vogliono la famiglia, la comunità, le tradizioni, la paura a chiamarsene fuori. Il risultato sarà un tracollo nervoso, la perdita del posto, una vita spezzata. Non è insomma l'ignoto a frenare Naipaul, quello stesso ignoto che invece eccita Theroux. Questi in quell'ignoto può anche addentrarsi, persino rimanerci, costruire un'Africa a propria immagine e somiglianza, Naipaul no: è un ignoto che conosce, lo ha visto sul volto di suo padre, ha fatto parte della sua vita, sa che se vi si inoltra vi resterà impigliato, troppo forte è il peso, il richiamo, il condizionamento. Il disprezzo, la rabbia, a volte l'isteria che percorrono le sue pagine africane, così come le sue pagine indiane, sono un guardarsi allo specchio con la paura di trovarvisi un giorno riflesso... Il passaggio eguale e contrario a quello che toccò a suo padre dopo quella umiliazione-espiazione pubblica: «Un giorno ha guardato nello specchio e non si è visto. Allora si è messo a urlare».

In Lo scrittore e il mondo c'è un accenno illuminante a Borges e alla sua idea della fama degli scrittori: «La cosa importate è l'immagine che crei di te stesso nella mente degli altri. L'immagine come è stato per Byron - può diventare alla fine più importante delle opere».

È qui, credo, che si racchiude l'idea di «altrove» di Naipaul rispetto alle proprie origini, la maschera che indossa, l'ombra che lo accompagna, più reale ancora, perché voluta e perseguita con dolorosa coscienza, del volto e del corpo che nasconde.

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