Nel "Labirinto" di chi ha perso la memoria l'unica via d'uscita è la rassegnazione

Il protagonista vuole uccidersi, ma riesce soltanto a ferire a morte la sua mente

Ha perso la memoria e sta sforzandosi di ricordare almeno dove l'aveva messa. Ma qui c'è poco (anzi, nulla) da ridere, nemmeno amaramente: qui non siamo, per intenderci, dalle parti dello Smemorato di Collegno di Totò, film in cui l'amnesia cronica che vale già di per sé una sceneggiatura scivola a tratti dal piano della commedia a quello del dramma. E d'altra parte qui non c'è nemmeno, a soccorrere il lettore, se non l'autore, una vera trama, come ad esempio in Il gigante sepolto di Ishiguro: perché la trama necessita di svolgimento, e lo svolgimento necessita di tempo, e il tempo necessita di almeno un pizzico di memoria.

Qui, in Labirinto di Burhan Sönmez (Nottetempo, pagg. 167, euro 17, traduzione di Nicola Verderame), la tabula è perfettamente rasa, e il protagonista Boratin, ventottenne turco, brillante musicista e leader di un gruppo blues, umo molto bello e, fino a pochi giorni prima, per nulla dannato, non sa come ricominciare a scriverci sopra. S'è gettato dal ponte sul Bosforo, ovviamente non ricorda per quale motivo, e invece di uccidere il proprio corpo ha ferito a morte la propria mente. L'unica costola rotta gli trasmette quel tanto di dolore fisico utile a ricordargli (questo sì) il miracolo avvenuto. Ma la vita spesso è una questione di punti di vista, e il vicino di letto, in ospedale, gli dice: «forse hai avuto la sfortuna di restare in vita, ma la fortuna di perdere la memoria». Ci vuole pazienza, poco alla volta tutto si aggiusterà, gli dicono la dottoressa che l'ha in cura, l'amico fraterno Bek, l'amica Hayala, la abla, cioè la sorella maggiore che vive a centinaia di chilometri da quella Istanbul caotica e magica in cui il Nostro si muove come un subacqueo in un fondale limaccioso. Lui pazienza non ne ha, ma non ha nemmeno premura di tornare come prima, perché del com'era prima sente di non potersi fidare... La sua nuova sfera cognitiva somiglia molto alla rassegnazione: «La mia mente è un cimitero in cui morti e vivi riposano fianco a fianco».

Rimbalzandolo fra prima, seconda e terza persona singolare, Sönmez accompagna Boratin in una bolla di solitudine che galleggia più leggera dell'aria fina portata dal libeccio. È forse l'atavica consapevolezza del «sé» a instillare nello smemorato di Istanbul l'ossessione per gli specchi, e quella, meno antica e più pratica, per il tempo che lo induce a smontare un orologio per verificare se il tempo non fosse magari nascosto proprio lì, fra quei piccolissimi e rigorosissimi ingranaggi. «Tutti cercano di fornirti un passato, mentre in realtà ti stanno dando una storia. Nel primo tutto è vivo, nella seconda tutto è morto».

Il passato che gli altri ci danno non è che la loro versione dei fatti, una costruzione, una trama, magari un libro. Ma il passato nostro, individuale, è come una clessidra difettosa da cui esce un po' di sabbia. E quella sabbia perduta è perduta per sempre.

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