Cultura e Spettacoli

Il primo appello per la tutela dei beni culturali? Lo fece Raffaello...

Nella lettera a Papa Leone X emerge l'amore per l'archeologia di un artista fuori dal tempo

Il primo appello per la tutela dei beni culturali? Lo fece Raffaello...

Com'è doveroso, vi accoglie Papa Leone X. Inutili le polemiche, il dipinto di Raffaello che apre la mostra alle Scuderie del Quirinale deve stare a Roma, dove è il Papa, non a Firenze. Inutili le polemiche di chi si vuol mettere in vista, citando divieti e liste che, per le celebrazioni di Raffaello, a cinquecento anni dalla morte, dovrebbero tenere in quarantena anche il Papa più importante per la storia dell'arte italiana. Il Papa sta a Roma, non può essere sequestrato a Firenze durante le funzioni solenni. Ha ragione il direttore degli Uffizi, Eike Dieter Schmidt, che più di ogni altro dovrebbe tenere alla norma astratta che prevede che alcune opere mobili siano inamovibili. Anche contro la logica, il Papa celebra la funzione solenne a Roma. La prossima volta sarà nel 2083. C'è una sola norma: non impedire al Papa di stare a Roma. In tempi di coronavirus, i monatti della cultura non spiegano perché abbiano alzato grida al cielo quando si spostò di quattrocento metri, a Bologna, esponendola a Palazzo Fava, l'Estasi di Santa Cecilia, dipinto fondamentale e pregiudizialmente inamovibile della Pinacoteca di Bologna, che ora è giunto senza problemi e senza polemiche a Roma; e perché abbiano invece taciuto quando La Muta da Urbino, dove è essenziale, è stata inviata da Cagliari a Mosca, come la Madonna pellegrina, nell'assoluto silenzio dei Montanari e dei Moretti e, ancor più, dei Pinelli e degli Ambrosini, membri abulici di un Comitato scientifico scavalcato dal direttore austriaco della Galleria Nazionale di Urbino. Oggi il nuovo e bravo direttore, Marco Pierini, ha resistito alle lusinghe, e tenuta ferma La Muta. Il principio è sempre quello: decide il direttore, assurde sono le regole che possono essere interpretate, e nessuno rispetta. Perché i protestatari di oggi tacquero perfino quando si minacciò di portare La Muta, negata oggi al Quirinale, all'Ucciardone, non per onorare Raffaello, ma per ricordare la strage di Capaci. Tutti muti quelli ciarlieri, ieri per l'Estasi di Santa Cecilia, spostata da Bologna a Bologna, oggi per il Papa a Roma.

Eppure la mostra, che si dipana a rovescio, dal tempo della morte, con il perfetto duplicato del monumento di Raffaello al Pantheon, dovuto alle impressionanti abilità di Factum Arte, ha il suo inizio nell'ammirabile lettera, scritta con Baldassarre Castiglione, che raccomanda al Papa la conservazione dei monumenti antichi, «vedendo quasi el cadavero di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato... (...) Quanta calce si è fatta di statue e d'altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch'ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata di calce e marmi antichi (...) Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura di quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana».

Questo amore per l'archeologia, in un pittore moderno come nessuno, ha un significato altissimo che in mostra è ben documentato dal continuo riferimento a statue, colonne, are, erme, rilievi di architettura della Roma antica; e lo ha ben detto, sotto una lucida epigrafe di Ugo Ojetti («quando ammiri una statua antica, ringrazia Raffaello: è lui che ti ha spiegato, nella tua lingua, la bellezza di quella statua»), Vincenzo Farinella: «Raffaello era un artista che... era diventato anche un archeologo... riuscendo a fondere nella propria persona competenze, saperi e abilità diversissime: l'obiettivo era compiere quasi un viaggio nel tempo, riuscendo non solo a produrre delle immagini e dei progetti che sarebbero potuti scaturire dalle menti e dalle mani di Apelle, Policleto, Dinocrate o Pigmalione, ma a ricomporre organicamente il modo di vivere e di pensare degli antichi, ritrovando un paradiso perduto che da oltre un millennio sembrava tramontato per sempre».

È questo il senso del Rinascimento, che indica la rinascita, su quelle fondamenta, di un mondo che è stato, e che Raffaello esorta Leone X a salvare, con parole tanto accorate. È da queste premesse che viene il dipinto più importante del Rinascimento, La Scuola di Atene, trionfo di un sapere che passa dal mondo antico al mondo moderno, da Platone a Leonardo, uniti genialmente nella stessa persona. Raffaello nel Cinquecento riproduce il sentimento di Petrarca nel Trecento, un pensiero che corre costante nei grandi spiriti, e stabilisce una storia sincronica, in cui convivono i pensieri degli antichi e dei moderni, in un solo sapere, che rende La Scuola di Atene un'apoteosi dell'Occidente, che ha nel Rinascimento il momento più alto della sua coscienza. La mostra restituisce bene questa dimensione, dando il massimo rilievo a personalità come Baldassarre Castiglione. E in mostra dialogano Castiglione e Leone X, entrambi essenziali per Raffaello, il cui spirito trova una sintesi nell'ammirabile veduta archeologica di Herman Posthumus (specchio inquietante e trionfante della lettera di Raffaello). Ciò che resta è ciò che è, davanti al tempo.

E però la mostra sembra dirci che quello che Raffaello lamentava perduto è, nella realtà, con lui rinato. Nel percorso si incrociano il cartone di Raffaello (versione Factum) con il Sacrificio di Listra, tradotto in tempo reale nell'arazzo di Peter Van Aelst e, per individuarne i riferimenti archeologici, il rilievo con scena di sacrificio fra architetture classiche, degli Uffizi, concepito nel II secolo dopo Cristo e che appare, attraverso Raffaello, in un eterno presente. Così Venere si umanizza nella Fornarina, interpretazione viva e animata nella sua morbida carne della Venere accovacciata sempre dagli Uffizi del I secolo d.C. La Fornarina vive, Venere rivive. E così come Raffaello aveva visto Leone X nella piena consapevolezza dell'impegno cui l'aveva chiamato, fra i cugini cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, tutti e tre consapevoli della rinascita in una dimensione pienamente umanistica, vede Giulio II nella concentrazione pensosa di un uomo il cui potere non è nella pompa, ma nella riflessione, nella intelligenza, nella malinconia, con una vita interiore e una sensibilità incomparabili (anche per il suo successore).

In pochi anni Giulio prepara l'appagato trionfo di Leone X in una Roma nuova. Attraverso questi volti, prima ancora che nei soggetti sacri, Raffaello ci parla della sua impresa, come in un teatro dove i personaggi ci parlano del loro destino, fino all'ultimo autoritratto con un amico dove Raffaello si umanizza fino a sconcertarci. Disarmato, ci guarda mentre provoca l'amico che sembra trasalire al suo richiamo, allontanandosi, distratto, da noi. Raffaello, invece, provato, segnato, rispetto al giovane puro che era stato, ci parla senza atteggiamenti, senza paludamenti, nudo davanti a noi. Uomo davanti a uomo. Mostrando di avere intercettato la sensibilità di Lorenzo Lotto, incrociato nelle Stanze, prima che di Tiziano o di Sebastiano del Piombo.

L'ultimo autoritratto è la prova che un grande pittore è tale se è, prima di tutto e senza di tutto, un uomo.

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