Ma quando voleva, era «leggero» e napoletanissimo

Ma quando voleva, era «leggero» e napoletanissimo

Lacrime napoletane, ancora. Dopo Pino Daniele, Partenope piange un altro figlio suo, cantore illustre d'una città amata e martoriata come poche. Perché Francesco Rosi, nato a Napoli il 15 novembre 1922, nella sua opera ha infuso tutto ciò che aveva assorbito tra «vichi» e piazze e in mezzo ai drammi partenopei, osservati con sguardo partecipe, ma senza indulgenze. Tarallari, acquaioli e zampognari risultano assenti dalla sua estetica cinematografica, improntata a quel preciso senso di «altra Napoli», una sprezzatura antiretorica che gli fece stringere amicizia, al Liceo Umberto, con Raffaele la Capria. Non a caso i due, preparando, insieme, Le mani sulla città (1963), capolavoro che denuncia il sacco urbanistico napoletano, s'infilavano nei vicoli del Pallonetto e del rione Sanità, scuriosando nei bassi per cercare storie private, ma pubbliche. Come compete a Napoli, palcoscenico d'un sentire universale, dove una tazzulella 'e cafè può diventare parte per il tutto e parlare di scempi sociali e soprusi subiti con stoicismo feriale. E in quel ventre, in quell'oro «il Professore» (lo chiamavano così, per via del puntiglio), s'immergeva rubando un dialogo al balcone, gustando il profumo della «vacilotta» di maccheroni al ragù. O l'arte di arrangiarsi, un orologio al polso che sparisce, ma poi si ritrova grazie alle amicizie giuste; le guardie che corrono sul posto e, invece di stilare il verbale, discutono dei numeri buoni per il Lotto: scene di vita vera, tra spettacolo e amarezza. Perché a Napoli, magari ci si muore è famme , ma il cielo è azzurro come il mare... «L'impegno sociale, la pulizia morale, le buone regole li avevamo stampati in fronte», spiegava spesso “Kinglax”, l'altro soprannome di Rosi, riferito ai cioccolatini lassativi del Ventennio, il cui bozzetto pubblicitario fu tratto da una foto che gli aveva scattato il padre, a un anno e mezzo. Già, papà Rosi: bolognese di nascita, ma napoletano di cuore, ebbe un ruolo decisivo nell'avvicinare il figlio al cinema. Portandolo a vedere Il monello al Rex di Posillipo. E non opponendosi all'iscrizione del rampollo al Centro Sperimentale.

Ma Rosi fu capace di trasformare la sua meridionalità anche in sogno, come in C'era una volta (del 1967) splendido lungometraggio al cui soggetto collaborarono Tonino Guerra e di nuovo La Capria.

Omar Sharif e la “regina” di Napoli Sophia Loren raccontano un meridione barocco e favolistico dove una popolana e un principe riescono a convolare a nozze grazie all'aiuto di Giuseppe da Copertino. Questo è il Rosi più leggero e poco politico che spesso viene dimenticato.

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