Cultura e Spettacoli

La solitudine è un delitto senza colpevole che ci lascia con "La morte in mano"

Un biglietto misterioso e una donna al tramonto in una comunità di nemici

La solitudine è un delitto senza colpevole che ci lascia con "La morte in mano"

Poiché il caso da lui narrato in La promessa viene chiuso, ma non risolto, il grande Friedrich Dürrenmatt diede al suo romanzo il sottotitolo Un requiem per il romanzo poliziesco: lì il romanzo poliziesco fallisce, muore, e con lui fallisce e muore la giustizia, poiché il lavoro che le spettava lo fa il Caso. Ottessa Moshfegh non ha dato al suo romanzo La morte in mano un sottotitolo, ma se glielo avesse dato avrebbe potuto scegliere «Un requiem per il romanzo psicologico», perché qui il caso non viene chiuso per il semplice fatto che non viene neppure aperto. Parafrasando Shakespeare, potremmo dire: «Esistono meno cose in cielo e in terra, Vesta, di quante possa inventarne la tua mente».

Vesta Gul, settantaduenne vedova di origini croate trasferitasi da una parte all'altra degli Stati Uniti dopo la morte del marito Walter, epistemologo «condiscendente e comandino», è protagonista e voce narrante di La morte in mano (Feltrinelli, pagg. 189, euro 16,50, traduzione di Gioia Guerzoni). Levant, anonimo e tristanzuolo paesello ai margini della Route 17, le offre ciò che desidera (o che si illude di desiderare), ovvero una monocorde solitudine che la conduca alla fine senza troppi sussulti emotivi, e appena attenuata dalla presenza (ingombrante) del suo cane Charlie. Durante una delle abituali passeggiate nei boschi, la donna trova per terra un biglietto con un messaggio ambiguo e agghiacciante: «Si chiamava Magda. Nessuno saprà mai chi è stato. Non l'ho uccisa io. Qui giace il suo cadavere». Due affermazioni e due negazioni. Quattro frasi che interrompono un rassicurante tramonto senile e segnano l'alba di un nuovo, tormentatissimo giorno. Quattro interrogativi che fermentano nell'anima di Vesta e ne deformano la percezione della realtà. Alcune riflessioni, lasciate cadere con noncuranza dalla signora, con il senno di poi valgono per il lettore come indizi (ma indizi di che cosa?): «Non c'è nulla di più solenne dell'anonimato». «Dev'essere bello pensare di poter diventare invisibili solo rimanendo immobili». «E che meraviglia sapere che si possono dimenticare certe cose». Soprattutto: «Mi sento in pace qui, nel mio spazio mentale. Ora, perfettamente mimetizzata, sono parte delle tenebre».

Ecco, è proprio lo spazio mentale della donna a ospitare, con la collaborazione di alcune circostanze esterne, la costruzione di un caso. Alcuni versi da La voce dell'antico bardo di William Blake fungono da esca intellettuale per l'ipotetico assassino, un'atmosfera che richiama la Suburbicon del film firmato da George Clooney e dai fratelli Coen è lo scenario di morbosa ambiguità in cui ogni ipotesi diventa un fatto.

E da lontano ci arriva la voce del caro (ma fino a un certo punto) estinto marito: «Vivi troppo nella tua testolina, Vesta».

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