Il giorno dopo è come il giorno prima. Delio Rossi ha la stessa voce, lo stesso sguardo, i pensieri non fuggono dietro le parole che sono sempre studiate, pesate. «Ma io non so parlare, mi riesce difficile in pubblico, spesso quello che vorrei dire non arriva a destinazione». Ha chiesto scusa, a tutti, compreso Ljajic, ha ribadito di avere sbagliato, ha rivisto quelle immagini, sa che il gesto non ha giustificazioni se non per la provocazione del ragazzo serbo sul quale andrà a dire tra poco. Ricapitoliamo, con lui.
Signor Rossi, allora? La sua carriera è conclusa? Pensa di tornare ad allenare?
«Sto riflettendo, mi faccio mille domande. So di essere un allenatore prestato al mondo dei professionisti».
Vale a dire?
«Che oggi allenare è l'ultimo dei problemi. Oggi bisogna gestire. Hai a che fare con una generazione che non ha un grande senso della professionalità. Hanno vent'anni e già si presentano, agli allenamenti, a bordo di automobili lussuose, puoi dialogare soltanto con i loro procuratori, poi, magari all'autogrill, durante una sosta prima o dopo la partita, li trovi a mangiare la cioccolata. E altro ancora».
Allude a Ljajic?
«Non soltanto a lui ma a una generazione di privilegiati».
Veniamo a Ljajic. Ha chiesto scusa, così dicono e scrivono.
«A chi? A me no, mai. Anzi».
Anzi che cosa?
«Dopo la partita con il Novara entro nello spogliatoio e rimprovero la squadra: ma razza di presuntuosi, come avete potuto buttare via una prestazione così? Poi vado da Ljaijc e gli dico: non ti permettere più di dirmi le cose che hai detto e di comportarti come hai fatto».
E lui, contrito, cosa ha risposto?
«Contrito? Ha tentato di venirmi contro. E ora leggo che il suo procuratore vorrebbe denunciarmi». (la famiglia ha ieri prima annunciato di voler denunciare il tecnico poi, in serata, ha fatto sapere di preferire attendere, ndr)
Lei ha rovinato l'immagine, la sua e del calcio italiano.
«Io? E tutti quelli che si sono venduti le partite? Il filmato di mercoledì ha fatto il giro del mondo. Sono un mostro. E ora cercano di speculare. Il Gabibbo, Striscia la Notizia, vogliono costruirci su il solito show. Ora è questo il mondo del calcio. Non è il mio».
Ma che cosa le ha detto il serbo?
«Ha mancato di rispetto alla mia persona e alla mia famiglia. Non si è limitato a una imprecazione, ha reiterato gli insulti».
E lei conosce la lingua serba?
«Sapete quanti calciatori ho avuto tra Lecce, Palermo e Roma con quell'idioma? Con loro spesso dialogavo ricorrendo alle loro parole».
Quali sono i moralisti cui lei ha accennato e dai quali non intende ricevere lezione?
«Quelli che dicono e scrivono che se avessi reagito così come ho fatto, sbagliando, ma nello spogliatoio, sarebbe stato meglio. Ma a caldo, certe reazioni, anche se censurabili, hanno una spiegazione, a freddo, sarebbero premeditate. E nessuno se ne rende conto. Poi ci sono altre considerazioni».
Dunque Ljajic non ha chiesto scusa.
«Per niente. Invece ho ricevuto telefonate impreviste da Conte, che non ho mai frequentato, da Mazzarri, da Iachini, da colleghi di serie inferiori, perché da lì vengo e non dimentico».
Che cosa?
«Di avere allenato una squadra di operai, muratori e contadini, di sera, a Torremaggiore, vicino a Foggia. Quattro giorni alla settimana, per tre volte al giorno, primo pomeriggio, poi al tramonto e a sera, al buio, al freddo, senza termosifone nello stanzino per cambiarci. Usavamo il phon. Poi al sabato ultimo allenamento al parco San Felice di Foggia. Promossi in Eccellenza. Vorrei parlare di questo a Ljajic e ai suoi colleghi».
Mai incontrato altre teste calde?
«Sì. Chevanton, ad esempio. Un bastian contrario. Decidevo di fare la corsa e lui voleva la partitella, sceglievo la partitella e lui la corsa. Una sfida quotidiana. Sapeva di essere il migliore, in campo lo era ma fuori un ribelle. Una sera a Terni vengo informato, da un vicepresidente della mia società, che tre titolari sono stati visti alle due di notte in discoteca. Uno addirittura alla cassa distribuiva i biglietti. Chiamo il vicecapitano: volete ancora con voi quei tre e rischiamo la retrocessione o li lascio fuori e diamo l'esempio a tutti? Poi vado dal genio cassiere e gli dico: ma ti rendi conto che alle due di notte non si sta in discoteca alla vigilia di una partita decisiva? Lui, Chevanton, replica: ha sbagliato il vicepresidente a dirmi di andare a casa, ho fatto una brutta figura davanti a tutti. Ora vi chiedo, si può lavorare con tipi così»?
Anche con alcuni colleghi...
«Forse. Ho avuto, come allenatore, un esaltato: si chiamava Renato Zara, faceva spostare i tronchi e scalare le montagne».
Zeman?
«Maniacale, dogmatico. Viene dalla cultura dell'est, prima della caduta del muro. Lui non mi ha telefonato e credo che non lo farà».
Come occuperà il tempo?
«Facendo quello che per colpa del pallone non facevo: pagare le bollette, badare alla casa e occuparmi della vita della mia famiglia. Il calcio mi ha dato da vivere, ne ho avuto bisogno».
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