Dice un proverbio barlettano: «da dou pret stort iès nu murid». Da due pietre storte nasce un muretto. Pietro Paolo Mennea, di Barletta, era stortignaccolo, secondo una immagine feroce di Gianni Brera, ma da quella morfologia esteticamente non perfetta costruì il suo muro, forte, enorme, grandioso. Era un pugliese diverso, come è diversa la gente di Barletta dal resto di quella lingua di terra che sale verso il nord.
Introverso, silenzioso, solitario, puntuale, timido, esplosivo. Era vecchio da giovane ed è morto giovane da vecchio. La Puglia oggi espone la sue bandiere di ultima generazione, Cassano, Vendola, musicisti, teatranti, attori, registi. Per anni Pietro Paolo Mennea ne è stato il simbolo mondiale, oltre l'Italia delle regioni e delle fazioni, bandiera pulita, nitida.
Mennea, con il silenzio che lo ha accompagnato fino all'ultimo respiro, tornava nella sua terra. Mai ne ha fatto un oggetto di propaganda o di riscatto, altri hanno sfruttato il sud per farne uno strumento di demagogia. Gli occhi spiritati e quella bazza alla Totò non lo facevano somigliare a nessun altro atleta di cui si descrivevano, invece, il fisico austero, i muscoli prepotenti. Eppure Pietro era alto centottanta centimetri che diventavano un'ombra nel canneto, quando si accucciava prima di fare esplodere la sua voglia di vivere, di vincere. Era venuto a Torino, alla Sisport, la casa sportiva della Fiat, che gli aveva garantito un contratto.
Torino era la città più meridionale d'Italia, per i pugliesi la terra promessa, il treno che risaliva, lentamente, di notte da Lecce, Bari, Foggia verso Porta Nuova, ripassava la storia del Paese. A Torino Mennea incontrò le figurine della sua infanzia e gli idoli della sua adolescenza, il presidente, i calciatori della Juventus, gli Agnelli. C'erano meridionali come lui, uno anche pugliese, di Lecce, Franco Causio, c'erano Pietruzzu Anastasi, Furino, Cuccureddu, l'idea di Gianni Agnelli era quella di tenere in squadra atleti che scaldassero i cuori degli operai meridionali della Fiat, Mennea rappresentava il completamento dell'opera, il presepe dei sogni era perfetto.
Lo incontrai una sera inoltrata, all'aeroporto di Linate, quasi deserto. La partenza dell'ultimo aereo, per Bari, prevedeva mezzora di ritardo. Prendemmo a raccontare delle cose pugliesi e di una Torino che faticava a raccogliere i "napuli" come venivamo chiamati per mischiarci tutti assieme. Sorrideva con la bocca storta, tenendo tra le mani una copia di Hurrà Juventus con il faccione di Vycpalek in copertina e, all'interno, un articolo dedicato a Mennea, il fulmine juventino, lo sfogliava, quasi stupito ma felice.
Ci eravamo sentiti altre cento volte, le vicende di calciopoli lo avevano disamorato, sentendosi tradito aveva provato attrazione per Mourinho e il senso testardo del portoghese per la vittoria; erano diventati amici.Penso che si sia addormentato tenendo il dito levato al cielo. Il suo ultimo fotofinish.
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