STEINBERG L’incanto del disegnatore illuminato

Due mostre a New York celebrano il grande illustratore di origine romena morto nel 1999. Dalle copertine del «New Yorker» alle «caricature architettoniche»

C’è una foto del disegnatore americano Saul Steinberg che tiene per mano se stesso all’età di otto anni, scattata nel 1978 a Long Island dalla fotografa tedesca Evelyn Hofer di cui era molto amico: lo Steinberg junior, rappresentato da una foto a grandezza naturale in bianco e nero montata su una silhouette in cartone, è in grembiulino nero, porta pantaloncini corti, una cravattina virata in verde, ha i capelli ben spartiti e gli occhi sgranati, puntati sul mondo. Lo Steinberg senior ha 64 anni, sfoggia gilet e cravatta dai geometrici disegni anni Settanta e ha ancora quello sguardo puntato sul mondo, ingigantito dagli occhiali e arrotato dall’ironia sensibilissima che lo rese il più famoso creatore di copertine - 87 in tutto, oltre a quasi 500 disegni - del New Yorker, l’autore di dodici volumi di disegni tra il 1945 e il 1992 e il nome celebrato in decine di mostre e retrospettive in tutto il mondo.
Una di queste retrospettive, amplissima e divisa in due sedi, è aperta a New York, la città in cui Steinberg - lasciata l’Italia che nel 1933 lo accolse dalla Romania dove era nato a Ramnicul-Sarat, lo fece laureare a Milano in architettura all’allora Regio Politecnico e poi lo costrinse alla fuga a causa delle leggi razziali nel 1941 - svernò fino alla morte, nel 1999, preferendo trascorrere la bella stagione a Springs, nell’East Hampton, sull’oceano. Il Morgan Library & Museum ospita una parte della mostra, dal titolo ispirato a Rimbaud, «Saul Steinberg: Illuminations», che proseguirà fino al 4 marzo, mentre al Museum of the City, sulla Quinta Strada, è allestita fino al 25 marzo l’esposizione collegata: «A City on Paper: Saul Steinberg’s New York».
Gli oltre cento fra disegni, collages e costruzioni esposti alla Morgan comprendono gli originali delle copertine del New Yorker divenute celebri, come le scale mobili multiple e l’uscita rococò della metropolitana di Underground (1946); meno note come Library (1987) in cui si ricostruisce una biblioteca surreale con blocchi di legno «travestiti» da capolavori di Cechov, Stendhal e Kipling, ma anche da elenchi del telefono e grammatica creola; pezzi unici nel loro genere come il murale The Line, 10 metri che iniziano e terminano con l’immagine della mano che ne sta disegnando i soggetti: edifici, ponti, donne, nuotatori, un aeroplano, montagne e così via, in un libero flusso associativo sorprendente, tipico dei giochi illustrativi di Steinberg; composizioni biograficamente rivelatrici come Passport (1951), ricostruzione del «documento dei documenti», infarcito di firme, visti, bolli, impronte inchiostrate, rappresentazione grafica dell’incubo burocratico durato due anni che Steinberg attraversò per ottenere il passaporto per l’espatrio negli Stati Uniti e che ebbe infine nel 1942 grazie al contratto che ottenne con il New Yorker.
Da quel momento in poi, la strada fu in salita: il suo primo volume di disegni, All in line, pubblicato nel 1945, vendette oltre 20mila copie e ne fece subito un frequentatore dei circoli artistici, di architetti e di disegnatori, oltre che ospite dei magazine. Insomma, una delle celebrità della Grande Mela. E Steinberg ricambiò l’affetto e la curiosità mostrata dalla città con una serie di disegni di New York e dei suoi abitanti che rimangono tra le più folgoranti «illuminazioni» del Novecento. Quaranta di essi sono raccolti nella seconda delle sedi che ricordano in questi giorni Steinberg, il Museum of the City di New York. Come architetto (e inventore delle «caricature architettoniche», spiega una delle didascalie della mostra), egli era attratto soprattutto dagli edifici, spettacolari, grandiosi, vere sfide immobili allo spazio, come il Chrysler Building, la cui maestosa prospettiva viene arditamente «messa sul lastrico». Come cartoonist e come genio - così lo definirono Nabokov e Federico Zeri - era attratto dai newyorchesi, fauna adorabile e barocca, monumentale ed effimera, specie quella femminile, alla cui rappresentazione come «pellicce senza Venere» contribuì non poco la sua natura misogina.
Collocare il genio di Steinberg in un’epoca come la sua, caratterizzata da Pollock, Rothko, Lichtenstein, non è facile: «Il genio di Steinberg - afferma Harold Rosenberg nella biografia del disegnatore di cui è autore - sta nell’aver reso impossibile all’arte di riconoscere la sua legittimità di artista senza cambiare il proprio concetto di sé». Il memoir dal titolo Riflessi e ombre, sua breve autobiografia raccolta da Aldo Buzzi, e la raccolta di Lettere ad Aldo Buzzi (entrambi editi da Adelphi), che copre il lungo periodo dal 1945 al 1999, chiariscono quantomeno che quel romeno che leggeva e rileggeva Gadda e Manzoni, trascorreva la maggior parte del tempo con Papoose, il gatto che amava passeggiare sotto la pioggia, quell’ebreo amico di Primo Levi e timoroso di leggere La banalità del male per paura della «responsabilità di soffrire» e «dell’orrore di ritornare nella parte di vittima», quell’artista che scriveva «Il mondo dell’arte è un mondo speciale che talvolta ha qualche rassomiglianza col mondo dei prosseneti» e che chiamava un pelo - o capello, o baffo, o sopracciglio - di Klee rimasto imprigionato in un piccolo disegno di sua proprietà «la mia reliquia», era forse davvero, come lui stesso amava affermare, «un romanziere che disegnava invece di scrivere», perché non aveva mai avuto una lingua che sentisse davvero sua.
I due Steinberg della foto del 1978 non sono in confidenza, si vede subito. Se fossero l’uno il nipote e l’altro il nonno, tradirebbero la scarsa frequentazione, ma anche il grande affetto nella distanza, la nostalgia di quel che avrebbe potuto essere e non potrà più: «In Romania - scrisse in Riflessi e ombre - non ho avuto il tempo di passare il periodo “migliore”, da uomo di trenta, quaranta, cinquant’anni, da uomo affermato. La mia infanzia, la mia adolescenza in Romania sono state un po’ l’equivalente di essere stato negro nello Stato del Mississippi».
Ma quella foto rivela anche ciò che di profondo i due hanno in comune: un modo di vedere il mondo disincantato e insieme desideroso di ricostruire un nuovo incanto, un modo che derivò a Steinberg da un’infanzia trascorsa a guardare il padre montare splendide opere d’arte su scatole di cartone di sua produzione, destinate al pane azzimo o ai cioccolatini («Millet - scrisse - era l’ideale per i cioccolatini perché metteva insieme il classicismo del rinascimento col socialismo, che a quel tempo non era solo popolare ma anche vergine») e a sfogliare album di famiglia, in cui le foto si ispiravano a Delacroix e Ingres e tutti avevano baffetti alla Hitler, generati dall’ombra del naso. Sempre in Riflessi e ombre, Steinberg rivela come l’arte lo aiutò a fare di quel modo di vedere la sua poetica: «Non farti mai fotografare ridendo o sorridendo, mi ha detto una volta Barnett Newman. Se ti vogliono fare una fotografia, vestiti bene, col vestito della domenica, mostra la tua faccia più gradevole ma senza sorriso, una faccia seria, placida anzi, perché lì entra la dignità del mestiere, la dignità di essere pittori, artisti».


LE MOSTRE
Saul Steinberg: Illuminations
New York, Morgan Library & Museum, 225 Madison Avenue, 36th Street; (212) 685-0008. Fino al 4 marzo.
A City on Paper: Saul Steinberg’s New York
New York, Museum of the City, 1220 Fifth Avenue, 103rd Street; (212) 534-1672. Fino al 25 marzo.

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