Il presidente cinese Hu Jintao che molla il G8 e corre a casa per rendersi conto personalmente della situazione. Lesercito e le forze di sicurezza ancora impegnati a muovere nuove colonne di soldati verso una città già in stato dassedio. E poi il mistero mediatico di Urumqi, un capoluogo dove il regime accompagna i giornalisti a passeggiare in centro, ma continua a tenere sigillati internet, telefoni cellulari e qualsiasi altro mezzo capace di far filtrare notizie, immagini e informazioni. Infine quellaeroporto affollato del capoluogo dove centinaia di cinesi Han spauriti e preoccupati fanno la fila in attesa di potersene volare via. Qualcosa non quadra nella rappresentazione ufficiale degli eventi succedutisi nel capoluogo dello Xinjiang e nelle altre città di questa desolata provincia dellimpero cinese 3.300 chilometri a est di Pechino.
«Non si è mai visto un presidente cinese interrompere un viaggio allestero: questa è la dimostrazione di una chiara preoccupazione», nota Jean Pierre Cabestan, un professore di scienze politiche delluniversità Hong Kong. Dietro tutta questa mobilitazione, dietro la crescente preoccupazione di Pechino, dietro le minacce di punire con la pena di morte i responsabili degli incidenti lanciate ieri dalle autorità, prende corpo il sospetto che la strage di Urumqi sia solo la punta delliceberg. La rivolta nel capoluogo è, secondo alcune fonti, solo la parte più visibile di una rivolta estesasi in molte zone di una provincia dove i musulmani uiguri sono oltre otto milioni e rappresentano la metà della popolazione. «Abbiamo paura, temiamo che lo Xinjiang non sia più sicuro, preferiamo andarcene», ripetono le centinaia di cinesi in fila allaeroporto di Urumqi. A Turpan, Kashgar e altre città dello Xinjiang molti testimoni confermano il massiccio black out informativo imposto dal governo. «La polizia ha fatto irruzione nel negozio e ci ha imposto di sospendere ogni attività per i prossimi tre giorni, ma non sappiamo quanto potrà durare», racconta al telefono Huo Zhou, manager di un internet caffè a Turpan.
La mossa più inquietante resta la continua e incessante mobilitazione di colonne di soldati in tenuta da combattimento pronti a dare il cambio a quelli già schierati nella centralissima piazza del Popolo. A cosa servono se nella città sono già affluiti, stando a fonti ufficiali cinesi, oltre 20mila fra poliziotti, reparti antisommossa e unità paramilitari? Limpressione, secondo molti testimoni, è quella di una città ancora in preda a violenti disordini. Una città dove - nonostante il massiccio schieramento di forze di sicurezza - imperversano la rabbia degli uiguri e la voglia di vendetta degli Han. A Erdaoqiao, il quartiere del bazaar dove domenica sono iniziati gli scontri, gruppi di uiguri armati di bastoni e coltelli fronteggiano nuovamente soldati e forze di sicurezza. Nelle zone cinesi continua invece la caccia al musulmano. Poco dietro a piazza del Popolo una ventina di Han armati di mazze e bastoni vengono fermati dalla polizia mentre tentano di linciare un musulmano. In unaltra zona una folla di cinesi incoraggia allurlo di «picchiate picchiate» una squadraccia di teppisti intenta a massacrare uno uiguro.
Così, mentre Li Zhi, capo del partito comunista di Urumqi, promette «lesecuzione per chiunque abbia commesso crimini violenti» e il ministro della Pubblica sicurezza Meng Jiangzhu annuncia «severità esemplare per i capi della rivolta», il capoluogo dello Xingjiang sembra ancora in preda a una guerra per bande dagli esiti e dai bilanci ancora assai incerti. Anche sul numero dei morti imperversa il balletto delle cifre. A dar retta a Rebiya Kadeer, presidentessa del Congresso mondiale degli uiguri, organizzazione accusata da Pechino di sobillare la voglia separatista delletnia musulmana, solo a Urumqi il numero dei morti supererebbe quota 400 e la rivolta si sarebbe già estesa alle città di Kashgar, Yarkand, Aksu, Khotan e Karamay.
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