Stupri e misfatti la barbarie dei «liberatori»

I crimini contro gli italiani tra il 1940 e il 1946 raccontati da Federica Saini Fasanotti ne «La gioia violata»

Ha per titolo La gioia violata il libro di Federica Saini Fasanotti (edizioni Ares, pagine 328, euro 18) che rievoca i crimini compiuti in danno degli italiani - militari e civili - dai «liberatori» democratici. I quali non risparmiarono soprusi e umiliazioni anche a chi proprio come «liberatori» li aveva accolti e osannati. Questo saggio appartiene dunque al discusso ma ormai inarrestabile filone «revisionista». Sappiamo tutti che durante molti anni, e per motivi facilmente comprensibili, le rievocazioni storiche della seconda guerra mondiale, e del ruolo che vi ebbe l’Italia, obbedivano quasi tutte a un collaudato stereotipo fondato su alcuni punti: 1) deplorazione dell’incoscienza aggressiva e impotente insieme con cui Mussolini aveva precipitato l’Italia nel conflitto; 2) onore alla Resistenza, enfatizzazione del suo contributo alla vittoria sul nazismo, esaltazione dell’anelito di libertà del popolo italiano; 3) denuncia spietata delle efferatezze tedesche.
Non si vuol dire, ci mancherebbe, che quei punti fossero e siano inconsistenti: avevano e hanno il solo difetto di voler occultare un’altra non irrilevante faccia delle verità. Pongono il bene tutto da una parte, il male tutto dall’altra. Non era così, non lo è mai nella vita. Gli eserciti che dovevano portare democrazia e riscatto - ma che si battevanmo fianco a fianco con l’Armata Rossa di Stalin - compirono essi pure sopraffazioni, rappresaglie, stragi di innocenti, atti di barbarie. Questo non cancella la valenza positiva della loro azione, ma rettifica i luoghi comuni che la rivestivano infallibilmente d’alte idealità e di virtuosi intenti (questo vale in particolare per gli americani, gratificati d’un forte pregiudizio favorevole).
Nell’autunno del 1943, durante l’avanzata anglo-americana in Sicilia e prima dell’armistizio, nell’aeroporto di Biscari, presso Ragusa, furono trucidati almeno 73 prigionieri italo-tedeschi. I responsabili vennero tradotti in giudizio e si difesero ricordando le parole del generale George S. Patton che erano state il loro viatico per la battaglia. «Quando ci troveremo faccia a faccia con il nermico lo uccideremo. Non avremo pietà. Hanno ucciso migliaia di nostri compagni e devono morire... Dovete avere l’istinto assassino».
Non più tenero fu il generale francese Alphonse Juin, comandante del corpo di spedizione le cui truppe marocchine lasciarono, al loro passaggio, testimonianze di bestialità e crudeltà (le «marocchinate» furono una delle piaghe umane e sociali d’allora). Disse Juin in un proclama di napoleonica allure: «Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete c’è una terra larga e ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico il vostro generale vi promette, vi giura che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a piacimento e volontà. Per cinquanta ore». Difficile immaginare una consegna più ignobile. Solo i russi, nella loro avanzata in terra tedesca, riuscirono a far di peggio. Il «colpo di pugnale» mussoliniano alla Francia agonizzante poteva legittimare ritorsioni, ma non la licenza di bottino e di stupro concessa, nel ventesimo secolo, dal generale d’una nazione civile.
Nella sua diligente ricerca Federica Saini Fasanotti si occupa anche delle uccisioni, violenze, maltrattamenti che gli italiani subirono nei Balcani (dove peraltro le truppe d’occupazione avevano agito con estrerma durezza contro i partigiani titini). Ma più di questi atti, anche spietati, collegati alla feroce guerra civile che imperversava nella ex Jugoslavia, ispirano perplessità gli atteggiamenti di eserciti - come l’americano e l’inglese - che una Sicilia troppo servile aveva accolti trionfalmente quando erano tuttora nemici.


Le azioni e decisioni dei governi e dei comandi alleati erano improntate al criterio di Norimberga: il criterio secondo cui «il comportamento delle potenze della coalizioone antifascista non avrebbe potuto essere giudicato con gli stessi standard legali applicati ai loro nemici». Questa fu la «selettività giudiziaria» che i vincitori imposero, e che valse per i processi. Ma non vale per la storia.

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