Il suicidio islamico narrato ai bambini dai cartoni animati

Marcello D’Orta

Genova, 5 dicembre 1746, quartiere di Portoria. Un ufficiale austriaco obbliga alcuni passanti a prestar aiuto ai soldati, per sollevare un mortaio affondatosi nel fango. Un adolescente di nome Giovan Battista Perasso, detto Balilla, assiste alla scena. Si china e raccoglie da terra un ciottolo che scaglia contro l’ufficiale. Altri popolani si uniscono al ragazzo. Ne viene una sassaiola che costringe il nemico a fuggire. Con questo episodio comincia la rivolta dei genovesi contro gli austriaci, costretti a lasciare la città dopo cinque giorni di combattimento.
L’azione di Balilla era stata spontanea, come spontanea fu l’azione degli scugnizzi napoletani nelle Quattro Giornate. Nessun esercito reclutò questi ragazzi, nessuna chiamata alle armi fu affissa per le strade di Genova e di Napoli, perché i bambini hanno diritto a vivere la propria età tra le amorevoli mura domestiche e le sicure pareti scolastiche. Questa è la sacrosanta verità sancita anche dal Protocollo opzionale alla Convenzione dei diritti dell’infanzia, che vieta il reclutamento come soldati di ragazzi sotto ai 18 anni.
Divieto disatteso in varie parti del mondo (sono una cinquantina i Paesi in cui bambini imbracciano le armi) soprattutto nell’Africa sud-equatoriale. Dati precisi non ce ne sono, ma si stima in 350.000 il numero di bambini e adolescenti costretti a vestire la divisa militare (negli ultimi dieci anni sono caduti sul campo di battaglia due milioni di minori). E non si tratta solo di maschi. Un rapporto Unicef rivela che sono mandate al fronte anche le ragazzine, «spesso vittime di violente barbarie sessuali» quando catturate dal nemico.
I bambini, tuttavia, non sono reclutati soltanto dagli eserciti regolari, ma anche ammaestrati a farsi saltare in aria «per la causa». A Nablus (Cisgiordania), nella scuola Omar Ben al-Hatab, accanto alle materie classiche, qualcuno insegna anche l’arte di uccidersi per uccidere. L’anno scorso, uno degli allievi, Tamer Khawirek, 15 anni, raccontò tra le lacrime la sua angosciosa esperienza: «Mi hanno regalato un cellulare, cento shekel (una ventina di euro, nda) e delle sigarette. Ma il meglio - hanno detto - verrà quando salterai in aria. Non morirai, vivrai in Paradiso, dove ti aspettano vergini distese tra fiumi di miele...».
Per un bambino che riesce a salvarsi (fu il fratello di Tamer ad accorgersi del suo umore «strano», spingendolo a confessarsi) altri che lasciano la vita in un autobus o sul selciato. Pochi giorni fa, a Kirkuk, un ragazzino si è fatto esplodere in un attentato kamikaze, ferendo solo di striscio il suo obiettivo, un generale iracheno.
Come se tutto ciò non bastasse, adesso anche la televisione fa proselitismo. Si è appreso di recente che la tv iraniana ha mandato in onda un cartone animato in lingua araba e sottotitoli in inglese (certi messaggi devono essere universali) che narra le vicende di una pattuglia di soldati israeliani che massacra una famiglia palestinese. All’eccidio sopravvivono un giovane e una bambina. Il giovane cova sentimenti di vendetta.

Così si arruola nella jihad (ormai tutti sappiamo cos'è: è la guerra santa) e diventa un Pietro Micca con la keffiah (ormai tutti sappiamo cos'è: è il copricapo arabo).
Pensierino della sera: c'era una volta la «Tv dei ragazzi», ora c'è la «Tv dei kamikaze». Per il Carosello integralista ci si sta organizzando.
mardorta@libero.it

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