Roma - E Ruby? No, non scherziamo, il presidente sloveno Danilo Turk sul caso del giorno non apre proprio bocca. Certo, è vero, ne hanno parlato ovunque, pure a Lubiana, ma qui nei saloni del Quirinale nemmeno un accenno, neanche un vago riferimento. Non è il caso. La cosa non è in agenda, ovviamente, e le buone maniere della diplomazia impongono che nelle visite ufficiali certe vicende debbano restare rigorosamente fuori dai colloqui tra le parti.
Del resto nemmeno Giorgio Napolitano, a quanto pare, ha molta voglia di affrontare pubblicamente l’argomento, considerandolo, come spiegano sul Colle, «materia di esclusiva pertinenza dell’autorità giudiziaria». Qualunque parola dicesse, sarebbe considerata un’indebita invasione di campo. Silenzio assoluto, quindi. Eppure il capo dello Stato non può sicuramente sottovalutare i possibili contraccolpi dell’inchiesta dei pm milanesi sul quadro politico e sulla stabilità della maggioranza e del governo. Infatti non li sottovaluta: se la questione non si chiarisce in fretta, le elezioni anticipate potrebbero velocemente riavvicinarsi.
Da qui «la preoccupazione», anzi «l’allarme» silente del presidente della Repubblica, che ritiene dannoso per il Paese andare al voto in questo momento, con la crisi economica internazionale ancora aperta. Napolitano è impensierito soprattutto per l’ennesimo scontro tra due poteri dello Stato di cui non si vede al momento una rapida ricomposizione. Ed è impaurito per i possibili ricaschi finanziari. Lo dice chiaramente, nel pranzo di Stato con Turk: «L’euro va difeso dalla destabilizzazione e dalle tentazioni speculative».
Eppure, viste dall’osservatorio del Colle, parevano aver preso una piega rassicurante. Sembrava che la temuta boa del 13 gennaio alla fine fosse stata girata senza troppi danni. Pareva, si sperava, che la sentenza di compromesso della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, presa peraltro dai giudici della Consulta a larghissima maggioranza, potesse servire ad attenuare i toni della politica italiana, sempre qualche decibel troppo alti. E pure un’intervista rilasciata dal vicepresidente del Csm Michele Vietti proprio all’indomani dalla ri-esplosione del caso-Ruby, in cui suggeriva «grande prudenza» al premier, si poteva leggere in questo senso.
Ora però quel fragilissimo equilibrio appare saltato. Ad aggravare le cose, l’arrivo del dossier milanese alla giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, quasi quattrocento pagine di interrogatori e verbali che stanno destabilizzando il già molto precario scenario politico. Ora, la preoccupazione principale del Quirinale riguarda le conseguenze dell’inchiesta giudiziaria sulla tenuta del governo. Berlusconi, che a Montecitorio deve combattere con i numeri, ha già i suoi bei problemi di reclutamento nel mettere in piedi il «partito dei responsabili», necessario per una navigazione più tranquilla da qui alla fine della legislatura. E da un paio di giorni l’operazione ha subito un vistoso rallentamento.
C’è poi un problema più generale ma non per questo, agli occhi di Napolitano, meno grave: il rapporto sempre più slabbrato tra la politica e le toghe e la deriva della «delegittimazione» reciproca.
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