da Milano
Il supereuro comincia a far paura al lusso francese: e al «made in Italy»? Non ancora, anche se qualche preoccupazione cè. «Certo, al sistema moda bene non fa, anzi fa malissimo - sostiene Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda - perché rende più competitive le importazioni e penalizza il nostro export in area dollaro. Come se non bastasse, a fine anno scadranno le quote dellimport cinese. Ma questo non è un problema per il lusso: almeno finora».
Lo conferma Francesco Trapani, amministratore delegato di Bulgari: «Il superlusso tira tantissimo, tanto che lalta gioielleria cresce più di altri settori del nostro gruppo. Conta molto leffetto Russia, turismo miliardario compreso». Daltra parte, Bulgari compra in dollari la maggior parte delle materie prime - oro, diamanti, pietre preziose - e questo in qualche modo compensa la penalizzazione nei confronti della clientela americana provocata dal dollaro debole. Un ragionamento analogo a quello che, per un settore completamente diverso, svolge Roberto Snaidero, presidente di Federlegno-Arredo: «Risparmiamo sulle importazioni di legname e vernici, che derivano dal petrolio. Daltronde, non è da oggi che il mercato statunitense dà segni di sofferenza: se vogliamo mantenerlo siamo obbligati ad accettare una riduzione dei margini e a puntare sul valore aggiunto di tecnologia e design». La stessa arma che il «made in Italy» ha usato per difendersi dalle crisi in un passato non troppo lontano: «Nel 2003 abbiamo vissuto una situazione simile - dice Armando Branchini, segretario generale di Altagamma, lassociazione che riunisce le imprese italiane di eccellenza, della moda e non solo - e la reazione è stata unanime: limpegno a creare prodotti nuovi ed esclusivi. Lunicità fa premio sullaumento di prezzo». Ma non per tutti è praticabile: «La creatività non basta a supportare gli aumenti - dice Luciano Donatelli, presidente di Biella Art of Excellence -, un abito da uomo medio-fine, che fino a ieri negli Usa era venduto a 2mila dollari, se costa troppo diventa invendibile».
È la fascia media a soffrire di più, conferma Paolo Zegna, presidente della Federazione imprese tessili e moda: «È necessario pensare in grande: i distretti hanno fatto la loro parte, ma adesso è tempo di coordinamento. Poi, rafforzare la promozione del made in Italy allestero, come stiamo facendo anche con lIce, anche perché non si può andare a casaccio: i mercati non sono tutti uguali». Infatti cè chi ha deciso di puntare solo su quelli emergenti, come Giovanni Burani, amministratore delegato di Mariella Burani Fashion Group, il gruppo che del «lusso sostenibile», dallabbigliamento alla pelletteria ai gioielli, ha fatto la sua bandiera: «Usa e Giappone per noi rappresentano solo il 4% del fatturato, perché abbiamo preferito focalizzarci su Russia, Europa dellEst (che è zona euro) e Medio Oriente, dove realizziamo la maggior parte dei nostri ricavi e dove il problema del cambio non si avverte». Discorso a parte per i colossi, come Luxottica: «Io ricordo sempre - dice lamministratore delegato Andrea Guerra - che quando il dollaro era a 0,90 avevamo un utile che era circa 2/3 di quello di oggi.
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