Alla fine, «Traviata» ce l'ha fatta. E se anche lo spettro dello sciopero aleggiava fino a pochi giorni fa in camerini e sale prova, poco importa, il sipario del Carlo Felice venerdì sera è tornato ad alzarsi e la tanto attesa «prima» della «rinascita» è scivolata (più o meno) liscia, con tanto di benedizione di Carla Fracci, presente in sala accanto alla sindaco Marta Vincenzi. «Arte e cultura non devono morire - ha dichiarato la famosa étoile della danza - facciamo tutto il possibile per unirci a favore di questo teatro». Benissimo, non fa una grinza, tutto sta a vedere dove andrà a parare questa infinita querelle sindacale, che rimane un capitolo aperto e in cui gli autonomi hanno appena scritto a caratteri cubitali una bella ingiunzione di pagamento degli stipendi di ottobre. E che minaccia la lenta e faticosa ripresa di tutto il sistema. Ma torniamo a venerdì: teatro gremito, moltissimi i giovani in galleria, e discreto successo, con qualche nostra perplessità per uno spettacolo che, volente o nolente - e aggiungeremo dolente - ha risentito della crisi degli ultimi mesi, delle contestazioni interne, degli orari di lavoro ridotti. «Peccato che ci siano mancate le prove sufficienti», aveva dichiarato il tenore genovese Francesco Meli in conferenza stampa; e ci aveva visto giusto. Tutto un po a compartimenti stagni, senza omogeneità tra buca e palcoscenico e tra gli stessi protagonisti, spesso portati a forzare la vocalità e a compromettere a tratti la precisione ritmica, creando sfasature con l'orchestra (direzione Fabrizio Maria Carminati).
Nulla da ridire su Meli (Alfredo) e non certo perché gioca in casa, applaudito e riverito dal suo pubblico, ma certo perché indiscutibilmente è stato il migliore sul palco, con la sua voce morbidissima e con una musicalità intensa che rimane sempre il suo tratto distintivo. Non male nemmeno Luca Salsi (Giorgio Germont), bella la voce ma non molto raffinato lo stile, probabilmente per la mancanza di quei complessi equilibri musicali di cui abbiamo detto; più discontinua invece la protagonista Norah Amsellem (Violetta), in una parte che non ci sembra completamente nelle sue corde, nonostante momenti anche felici, come l«Addio del passato» del terzo atto; voce troppo esile, non adatta all'evoluzione vocale e psicologica del personaggio, che è risultato alquanto fragile. La regia (Henning Brockhaus) ha puntato sulla spettacolarità, sconfinando un tantino nel volgare, trasformando il ricco salotto parigino in una vera e propria casa d'appuntamenti di metà ottocento, con tanto di costumi (Giancarlo Colis) non proprio da «bon ton» francese e coreografie non particolarmente curate. Bella l'idea dello specchio inclinato che riflette gli scenari stesi sul palco, ma alla lunga un po' monotono (immobile per quasi tutta la rappresentazione) e a tratti anche grottesco (cosa ci faceva Alfredo appeso al comignolo della villetta di campagna?) Fatichiamo poi a comprendere l'idea di sollevare completamente lo specchio nell'ultimo atto, a luci accese, per riflettere l'intera platea nel momento del trapasso di Violetta; il che a parer nostro ha distolto non poco l'attenzione dal momento tragico della morte.
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