da Roma
Professor Tremonti, come va la campagna del 13 aprile? Davvero è così influenzata dalla legge elettorale?
«Cerchiamo d’essere realisti. In questo momento, il problema non è tanto quello di una buona legge elettorale, quanto di una buona campagna elettorale. Ogettivamente questa legge elettorale non è il massimo, sulla dimensione dei collegi e sul meccanismo del Senato. In ogni caso, è stata fin troppo demonizzata. Faccio un esempio: la sinistra ha attribuito alla legge elettorale il fallimento del governo Prodi, basato su una coalizione troppo ampia, dunque troppo disomogenea, una coalizione forzata proprio dal meccanismo elettorale. Adesso il Partito democratico si presenta in alternativa a quella formula, con una coalizione più piccola ma più omogenea. C’è un dettaglio. La legge elettorale è sempre la stessa e non ha impedito, all’opposto ha consentito, il passaggio dalla coalizione “sbagliata” alla coalizione “giusta”. Segno che la legge elettorale non c’entra niente, e che il governo Prodi non è caduto per causa sua, ma per causa di un errore politico».
Al voto mancano solo due settimane. Due anni fa, alla vigilia delle politiche 2006, c’incontrammo all’Ecofin di Vienna e lei confidò di conoscere un sondaggio americano che dava le due coalizioni alla pari. Ha per caso qualche sondaggio americano nascosto in tasca anche stavolta?
«Flashback: i sondaggi “americani” non erano americani, ma italiani. Di “americana” c’era solo l’analisi. Un’analisi molto semplice, che arrivava a questa conclusione: il fattore cruciale sarebbe stato costituito dall’affluenza al voto. Se fosse andato a votare più dell’80% degli elettori, la partita si sarebbe giocata intorno ai 20mila voti. Così è stato. In questi termini, la strategia da applicare da parte della Cdl non era quella di conquistare nuovi voti ma di riprendere i voti vecchi, riportando a votare il nostro elettorato. Ci siamo riusciti grazie all’impegno straordinario del presidente Berlusconi, ma anche grazie al fattore Vicenza. Lì, al convegno della Confindustria, ci fu l’errore di Prodi. Alla domanda “come coprirai la tua promessa sul cuneo fiscale?”, la risposta fu nel dare un numero che si poteva coprire solo con le tasse. Prodi a Vicenza ha fatto come quello che entra al bar e dice “pago da bere per tutti”. Poi uno gli chiede “ma chi paga?”, e lui risponde “voi”. In questi termini, per noi fu sufficiente rendere noto il numero fiscale di Prodi: più tasse e più contributi, cosa che è puntualmente accaduta. A Porta a Porta dissi che avrebbe tassato le rendite finanziarie, cioè Bot e Cct. Credo che anche questa paura abbia riportato l’elettorato al voto».
E oggi?
«Dietro le “promesse” di Veltroni, la copertura non cambia, è sempre la stessa: la tassazione delle rendite, cioè la tassazione del risparmio popolare, dal 12,50 al 20%. Si scrivono “promesse”, si leggono “tasse”. L’incompiuta di Prodi sulle rendite è nell’ideologia del Partito democratico».
E questo vuol dire che...
«Chi, il 13 e 14 di aprile vuole stare tranquillo sulla sorte del suo risparmio, non deve farsi scappare la mano, ed evitare accuratamente di votare per il Partito democratico. Vede, Veltroni gira l’Italia come, una volta, facevano i venditori: per ogni piazza una promessa, unguenti miracolosi buoni per tutto e per tutti, per uomini e animali. Sembrerà provinciale, ma glielo dico in tre lingue, in inglese, italiano e greco. I democratici fanno come i venditori ambulanti americani, per cui si dice «Lie the day, fly the night».
Menti di giorno, scappa di notte.
«Esatto. In italiano: non vengo da Lodi per lodarvi, non vengo da Piacenza per piacervi... Quanto al greco, Veltroni si rifà a una commedia di Aristofane, “il Venditore di decreti”. A ogni domanda corrisponde come risposta un decreto salvifico: 1000 dollari per tutti, per i giovani, per i pensionati... E le coperture arrivano con due voci, i fondi globali, che nella Finanziaria di Prodi non ci sono, e le tasse. Voti oggi, paghi domani».
A proposito, quella voce di un ritorno di Vincenzo Visco come eventuale ministro tecnico delle Finanze nel governo Veltroni?
«Veltroni dice che al primo Consiglio dei ministri varerà dieci decreti, ma non dice chi sarà il ministro dell’Economia che li firmerà. Intanto, quella voce non è stata smentita».
Governare l’economia, di questi tempi, non sarà semplice. Si aspetta brutte sorprese quando i conti dello Stato saranno verificati?
«Sono un po’ stanco di andare ai dibattiti e sentire serie di numeri imparati a memoria. I numeri veri sono quelli ufficiali, appena comunicarti dal governo Prodi: crescita economica 0; inflazione 3-5%; pressione fiscale al massimo storico, verso il 44%; deficit pubblico che tende verso il limite europeo del 3%. Sono numeri che escludono il risanamento dell’economia e dei conti pubblici».
Ma dicono che anche voi non avete fatto molto meglio.
«Una sola risposta: negli anni del governo Berlusconi, a causa della congiuntura economica negativa che ha impattato sull’intera Europa, i conti pubblici per cui la commissione Prodi ha proposto le sanzioni non sono stati quelli italiani, ma quelli francesi e tedeschi. Ho l’impressione che Prodi avrebbe preferito sanzionare l’Italia, non la Francia o la Germania. Credo che questo sia un argomento decisivo, e ricordo che quando abbiamo lasciato il governo nel 2005 l’economia cresceva e parallelamente il deficit vero calava al 2,4%. Dopo due anni di governo Prodi siamo di nuovo verso il 3%».
Capitolo promesse elettorali. Come spiega la generosità di Veltroni su tasse, pensioni, famiglia e quant’altro?
«La grande differenza fra Veltroni e Berlusconi è che Veltroni pensa di perdere, Berlusconi pensa di vincere. Dopo aver perduto il conto del disastro adesso Veltroni promette il “miracolo”. Responsabilmente, nel programma del Pdl si cita invece la parola “crisi”. Crisi che sta arrivando dagli Stati Uniti e sta impattando sull’Asia, sull’Europa, e per questa via sull’Italia. Vede, io credo che nella formulazione di promesse miracolose ci sia un fattore di irresponsabilità, che destabilizza le basi stesse della democrazia. Se la politica formula promesse impossibili, determina reazioni distruttive, sposta il Paese verso l’antipolitica. La nostra strategia è responsabile: pensiamo che nell’arco della legislatura le condizioni possano invertirsi, passare dal negativo al positivo, e per questo crediamo che il nostro programma sia, nell’insieme, ragionevole. In ogni caso, partiremo con una misura di equità come la detassazione Ici sulla prima casa, trasferendo l’equivalente ai Comuni. E poi con una misura di produttività come la detassazione degli straordinari. Ancora, con una misura a costo zero, come condizionare gli sgravi fatti da Prodi alle banche alla ricontrattazione con criteri più umani dei mutui alle famiglie».
C’è una filosofia politica-economica alla base di questi interventi?
«I governi europei contemporanei non fanno l’economia. L’economia la fa l’economia: le imprese, i lavoratori, i consumatori. I governi devono e possono fare la piattaforma su cui si sviluppa l’economia. In questa strategia vedo due priorità: riscrivere il Titolo V della Costituzione, stravolto dalla sinistra nel 2000. L’Italia è l’unico Paese che, per Costituzione, stabilisce che le infrastrutture nazionali energetiche e di trasporto sono di competenza concorrente regionale. Questo è un fattore di spiazzamento dell’Italia nella competizione internazionale. La seconda priorità è l’energia. Paghiamo 30 miliardi di bolletta energetica, e questo danneggia tanto le imprese quanto i consumatori. La soluzione non è l’auto a pedali, non è il mulino a vento, non è la magia solare. La voce che manca è il nucleare. Credo che sia realizzabile una strategia italiana di investimento nucleare nei Paesi che stanno sull’altra sponda dell’Adriatico. Per il nucleare europeo di ultima generazione i tempi tecnici non sono lunghi, ma quelli amministrativi e politici sono infiniti. Non è detto che il nucleare italiano debba essere per forza in Italia. Finora le imprese italiane hanno delocalizzato il lavoro. Un’alternativa intelligente potrebbe essere quella di delocalizzare il nucleare per rilocalizzare il lavoro».
A proposito di produttività, si può fare qualcosa per la nostra Pubblica amministrazione?
«Non puoi fare una legge che abroghi il ’68, ma puoi abrogare le leggi fatte dopo il ’68 in funzione del ’68. È giusto sentire l’opinione della base sindacale, ma non che le basi sindacali condizionino in assoluto le scelte e la produttività di un ufficio pubblico. È necessario ritornare a principi di gerarchia e responsabilità, a quello che una volta si chiamava “capufficio”, responsabile verso i superiori e i cittadini. Non sono necessarie Autorità per il controllo dei fannulloni, anche perché si rischia di scoprire che i fannulloni non mancano neppure lì».
E allora, riepilogando, ci dice perché non bisogna votare il Partito democratico?
«La formula politica del Pd si basa su tre componenti: discontinuità, unità, novità. Discontinuità: l’effetto si costruisce applicando massicce dosi di bianchetto. Prodi è stato sbianchettato, salvo ritornare in pista per Alitalia; Veltroni si è fabbricata una fedina politica pulita con un indulto ad personam. Non si presenta come capo della maggioranza, come è stato nel 2007, ma come capo dell’opposizione. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato. L’unità: il Pd, da unico, si è già fatto in tre, con Pannella che fa lo sciopero della fame e con i peronisti di Di Pietro che dichiarano, smentendo Veltroni, che non faranno il partito insieme. E dicono che il Pd ha paura di Mani pulite. Resta la novità: il 70% della nomenklatura è in lista, nei posti sicuri, e oltre il 90% degli eletti ne fa parte.
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