E pensare che c’è chi ci ha costruito una fama: fenomeni come Susan Boyle, la cantante che incantò pubblico e giuria di Britain’s Got Talent (l’X factor britannico) grazie ai clic su YouTube, forse non si verificheranno più. Il tribunale di Roma ha accolto il ricorso di Mediaset contro YouTube, il popolare sistema di condivisione di filmati.
L’ordinanza, che riguarda le immagini del Grande Fratello ma potrebbe avere ripercussioni ben più ampie, ha stabilito la rimozione immediata dai server di YouTube di tutti i contenuti illecitamente caricati del reality più famoso d’Italia, pari, secondo Mediaset, a più di quattromila filmati. E se poi si aggiungono tutti gli altri programmi più scaricati delle tre reti del Biscione, si arriva a 500 milioni di video, equivalenti a 864 anni della nostra televisione vista su pc. Con questo provvedimento, che si inserisce nella causa iniziata nel luglio 2008 da Mediaset contro YouTube, accusato di illecita diffusione e sfruttamento commerciale di file audio-video – spiegano da Cologno Monzese- «si accolgono per la prima volta le richieste dei broadcaster e degli editori a vedere tutelati i diritti e l’esclusività dei propri contenuti». Secondo il Biscione, siti come YouTube «non sono semplici provider di spazi web ma veri e propri editori che devono rispondere alle regole come tutti gli altri media».
Che impatto potrebbe avere questa decisione sulle abitudini degli internauti? Basta guardare la «home page» del sito di video: alla voce «più popolari» compare la scena della lite Barbara D’Urso-Fabrizio Corona, andata in onda su Pomeriggio 5. Mediaset potrebbe chiedere di farla sparire. E non è tutto. Altri potrebbero seguire la stessa strada: la Rai con i propri programmi, Sky per le immagini dei sui eventi sportivi e, perché no, Beppe Grillo con le clip tratte dal suo sito.
Google, proprietaria dal 2006 di YouTube, sta valutando l’ipotesi di ricorrere in appello. Ma intanto cambia strategia: è allo studio l’ipotesi di introdurre alcune formule di abbonamento mensile per vedere contenuti «premium», per invogliare produttori cinematografici e televisivi a pubblicare film e serie tv e aggiungere un altra fonte di introiti, oltre alla pubblicità. Negli Usa il colosso dello streaming sul web ha già in piedi trattative con i grandi network per ottenere i diritti di trasmissione di alcuni show televisivi, così da trasmetterli in streaming in diretta a pagamento. Il tutto, senza interruzioni pubblicitarie e al prezzo di 1,99 dollari per ogni episodio trasmesso. Se film e serie tv, assieme con altri programmi di intrattenimento, adesso spopolano gratuitamente su YouTube, non è difficile intuire i possibili scenari. Non ci saranno più spezzoni gratuiti di fiction, puntate di intrattenimento o interi reality sul web. L’utente della rete si troverà a dover scegliere se pagare o meno per i contenuti più «succosi».
Probabile poi che le tv stesse trovino propri canali per divulgare i programmi sul web e non rinunciare all’eco che si crea col passaparola-web.
In realtà, già in Italia esiste un programma chiamato Content Id, a cui aderiscono Rai e Fox Channels Italy, che, secondo Google «offrirebbe ai detentori dei diritti strumenti efficaci per gestire se e come i loro contenuti debbano essere resi disponibili». Ma non si è ancora di fronte all’esempio di vendita on-line degli show televisivi. Con il Content Id siamo sul piano degli accordi tra piattaforma web e broadcaster ma gli internauti non pagano per i video. Google, naturalmente, prova a riallacciare un ponte con Mediaset: «Potrebbe unirsi agli altri partner e utilizzare questi strumenti».
Sul fronte giuridico, l’ordinanza accende i riflettori su un «buco» della normativa italiana in tema di web e diritti d’autore.
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