Usa, ultimo appello delle tre Grandi:

nostro inviato a Los Angeles

È nel Michigan e nell’Ohio che lo spettro della bancarotta delle ex Big Three fa più paura. In questi Stati americani è infatti concentrato lo zoccolo duro della produzione automobilistica «made in Detroit». L’impatto sull’economia e sull’occupazione di una resa definitiva anche di solo uno dei tre gruppi avrebbe «conseguenze catastrofiche», come sottolineato più in generale da Rick Wagoner, numero uno di General Motors.
Nel resto degli Stati Uniti, soprattutto in California dove l’Auto Show di Los Angeles farà nei prossimi giorni da termometro della situazione, il braccio di ferro tra Gm, Ford e Chrysler e il Congresso sugli aiuti al settore viene vissuto quasi con rassegnazione e un certo distacco. Anche se le ex Big Three ottenessero i 50 miliardi di dollari richiesti, la sensazione diffusa è che questi soldi servirebbero solo per chiudere una falla. Per Gm, Ford e Chrysler - in perenne crisi - le occasioni perdute e gli aiuti avuti in passato, sotto varie forme, non si contano. Ecco perché, girando tra i tavolini dei ristoranti e dei bar di Hollywood e Santa Monica, si sente parlare di tutto, fuorché della crisi dell’auto. È il segnale del timore che dopo i subprime, la chiusura di Lehman Brothers e le crescenti difficoltà della popolazione a far fronte ai debiti, il colpo di grazia al «sistema» possa arrivare proprio dalle quattro ruote. Quindi, meglio forse non pensarci, sperando in una soluzione dell’ultima ora, anche se a ricordare la drammatica realtà in cui sono piombati gli Usa sono i numerosi homeless che vagano, rovistando nei cestini dell’immondizia, lungo il Sunset Boulevard di Los Angeles e la strada dello shopping di Santa Monica.
Anche martedì, giornata dell’audizione dei vertici di Gm, Ford e Chrysler davanti alla Commissione bancaria del Senato, i televisori sintonizzati sulla diretta da Washington non erano quelli dei locali pubblici. Meglio ascoltare da casa le risposte un po’ imbarazzate di Rick Wagoner (Gm), Alan Mullaly (Ford) e Bob Nardelli (Chrysler) alle domanda dei senatori. Vedere gli ex tre potenti dell’auto presentarsi pubblicamente con il cappello in mano, al cospetto del mondo intero, per un americano non è stato sicuramente uno spettacolo gratificante. Per di più, dopo oltre quattro ore di botta e risposta, tra appelli delle case («l’auto rappresenta il 4% del pil Usa, a rischio ci sono tre milioni di posti»; «senza un prestito immediato, il nostro livello di liquidità non è sufficiente per continuare a operare normalmente») e il palese scetticismo da parte dei senatori («i soldi che chiedete non risolvono il problema, chiudereste solo dei buchi»; «state pagando scelte sbagliate e la bassa qualità dei prodotti») il problema resta irrisolto. «Il caso sta prendendo una brutta piega - spiega un osservatore che ha assistito al dibattito - non c’è la predisposizione da parte repubblicana a dare il benestare agli aiuti e anche alcuni democratici sono perplessi. Infatti c’è chi ritiene necessario che a beneficiare di eventuali aiuti siano anche le case straniere che operano negli Usa e hanno creato occupazione, quindi l’industria dell’auto nel suo complesso. Barack Obama deve stare attento. Una decisione sbagliata potrebbe dirottare Michigan e Ohio sui repubblicani e far iniziare al giovane presidente il mandato alla Casa Bianca con il piede sbagliato».
Intanto, mentre potrebbe essere il ricorso al voto a sbloccare l’impasse, Nardelli si è detto pronto ad autoridursi lo stipendio a un dollaro simbolico, come fece negli anni ’80 l’allora capo di Chrysler, Lee Iacocca. Più cauto invece Wagoner («me lo sono già dimezzato») e sordo all’ipotesi invece Mullaly («non serve a niente»).

Di fatto, tre case automobilistiche sotto la stessa bandiera negli Usa è sempre più difficile che abbiano un futuro. Il sacrificio di una di queste (Chrysler, l’anello più debole, potrebbe fondersi), come ipotizzato dall’ad di Bank of America, Kenneth Lewis, può essere una soluzione.

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