Cultura e Spettacoli

USA Viaggio a due identità

Il fiume di fango della recente alluvione nel Mississippi non potrà cancellare il tratto distintivo di un popolo

Che America è quella che ci siamo visti scorrere davanti agli occhi nelle acque salmastre del Mississippi, quell’America le cui convinzioni e la cui fede pressoché incrollabili sono state scosse dalla potenza degli elementi? È la stessa America che si è stretta intorno alla bandiera all’indomani del crollo delle Torri Gemelle e che assiste impotente al passaggio del tifone, alle razzie e alle scene di comune violenza con poliziotti bianchi che menano a sangue un nero in stato di ubriachezza molesta, evidenziando un’insanabile spaccatura razziale? La pubblicazione in Italia di due libri in parte assimilabili ci spinge a una riflessione che è un tentativo di ricostruire sommariamente, attraverso una serie di opere letterarie americane, un percorso culturale che il fango della storia e dell’inondazione ha rischiato di spazzare via.
Storia del popolo americano (Il Saggiatore, pagg. 510, euro 22) è un classico della saggistica statunitense. Howard Zinn, autore dalla visione alquanto radicale per un Paese come gli Usa, ne ripercorre la storia fin quasi ai giorni nostri, senza temere di trasmetterne un’immagine non conforme al prototipo della nazione democratica che siamo abituati a dare per scontato. Gli Stati Uniti d’America avrebbero dunque fondato il proprio successo sulla triade «conquista, schiavitù e morte», calpestando i diritti di popolazioni indigene e di minoranze sempre più scomode. «Mettere in risalto l’eroismo di Colombo e dei suoi successori (...) lasciando in secondo piano il genocidio che commisero, non è una necessità tecnica ma una scelta ideologica». Interessante scoprire che per Zinn la «Costituzione rispecchia (...) la complessità del sistema americano: serve gli interessi di un’élite ricca, ma fornisce ai piccoli proprietari e ai lavoratori e coltivatori a medio reddito garanzie sufficienti a creare un’ampia base di sostegno». Un tratto distintivo del terreno socioculturale ed economico a stelle e strisce.
Sfruttando il suo proverbiale eloquio, gli fa eco Gore Vidal di cui, in questi giorni, è uscito L’invenzione degli Stati Uniti (Fazi, pagg. 184, euro 13), un saggio che mette alla berlina i padri fondatori del suo Paese. Vidal ipotizza che la Costituzione statunitense non sia realmente democratica, bensì intrinsecamente oligarchica, servendo evidenti interessi lobbistici. Se le sue parole non fossero cariche di istrionismo letterario (si pensi alla descrizione di George Washington, un uomo che aveva accettato la presidenza di una società privata con riluttanza, perché «il suo stile era mostrarsi riluttante ogni volta che gli capitava qualcosa di desiderabile»), ci sarebbe poco da ridere. E chissà che cosa scaturirebbe dalla penna di Vidal se scrivesse un romanzo nuovo? Forse la stessa cosa che salterebbe fuori se John Grisham (il suo ultimo romanzo per Mondadori si intitola Il broker) si dedicasse a quel tipo di scrittura. Pare più interessante la sua analisi della realtà sociale del suo Paese rispetto ai suoi intrighi legali. «La nostra nazione è vasta. La nostra gente non impara le lingue ma, prima o poi, se vuole tirarsi fuori dal suo isolamento, dovrà farlo, altrimenti soccomberà di fronte ai colpi della concorrenza indiana e cinese».
Se John Grisham sta studiando da saggista, ha imparato bene. D’altra parte, i recenti fatti di New Orleans hanno aperto gli occhi su molti aspetti della società statunitense. Sembra che il Paese sia in grave difficoltà, che abbia messo in mostra delle crepe preoccupanti, lasciando finalmente spazio a un’enorme categoria di diseredati di cui tutti si erano dimenticati, ghettizzandoli nelle fogne sordide delle giungle urbane e nella depressione delle campagne del Sud. Un gigante dai piedi d’argilla? Un gigante che si sente in guerra e che pensa di combattere una guerra che solo Usa, fondamentalismo islamico e residui del post-comunismo sembrano essersi dichiarati. Ma la capacità di stringersi intorno alla bandiera resta la grande forza dell’America. Che qualche incrollabile certezza stia però sgretolandosi? Per capirlo è alla faccia interna del Paese che bisogna guardare. Quasi ottanta anni sono passati dalla grande inondazione del 1927 che sconvolse la Louisiana ma le cose sono cambiate molto meno di quanto si voglia far credere. Ce lo dice anche Randy Newman nel suo vecchio brano Louisiana 1927, uno spaccato a ritmo di ragtime della società del Sud, con le sue contraddizioni e le sue glorie. «I venti sono cambiati ed è piovuto pesantemente e lungamente, per le strade ci sono due metri d’acqua». D’altra parte, scriveva nel suo Vita sul Mississippi Mark Twain, uno che del grande fiume sapeva tutto e, quando non lo sapeva, se lo inventava, che «dappertutto le sponde erano piene fino all’orlo e molto spesso lo superavano (...) inondando i boschi e i campi (...). Un quadro desolante».
Ma l’America è piena di paesaggi desolanti. Non a caso il viaggio è la soluzione a molte inquietudini nazionali, oltre che una necessità logistica. John Steinbeck scrisse in Viaggio con Charlie di aver visto negli occhi dei suoi connazionali «un desiderio bruciante di partire, di muoversi, di andare, di mettersi in viaggio». Quando si dice viaggio, in America si pronuncia on the road e viene in mente immediatamente uno che sulla strada ha forgiato la propria fama imperitura e la propria disperazione. Jack Kerouac di miglia ne ha viste tante, sul rimorchio di un camion scassato oppure in un vagone merci. Visioni di Cody è un tassello in più per capire meglio la sua personalità difficile e la complessità di una nazione che ha saputo fare di necessità virtù, ovvero del viaggio un percorso di vita e un vessillo culturale. Quello stesso vessillo che gli alfieri del Rock’n’Roll hanno sventolato con quell’ardore iconoclasta di cui oggi, in un’America fin troppo mainstream e stereotipata, si sente forte la mancanza.
Certo la disperazione e la voglia di viaggiare di Kerouac ebbero risvolti tragici nella personalità di quella Janis Joplin che nacque e crebbe a Port Arthur, Texas, proprio dove si è abbattuto il recente uragano Rita, e che dalla sonnacchiosa e perbenista provincia fuggì per vivere la vita spericolata che molti ragazzi americani ancor oggi sognano. Graffi in Paradiso (Arcana) di Alice Echols non è solo la biografia della grande cantante texana, bensì è lo straordinario ritratto storico di un’era, attraverso le cui disillusioni capire l’America di oggi è forse più semplice. Ed è una gioventù preda dei reality show quella che oggi popola un’America dove si percepisce con forza la mancanza di punti di riferimento, di modelli che strappino gli adolescenti alla violenza delle strade, al crack e alle gang, proteggendoli contemporaneamente dalla longa manus di un certo fondamentalismo evangelico e aprendo loro gli occhi di fronte alle contraddizioni del Paese. Ecco che forse è proprio il noir a fornire il ritratto più vero dei vizi di questa società, che si tratti della prosa asciutta de L’esule di Allan Folsom (Longanesi) o di quella più evocativa e sociale de La mosca dalle gambe lunghe di James Sallis (Giano), un classico della modernità. Fortuna che l’ottimismo, o la fede, secondo coloro che si professano «Christians», è nel Dna di questo popolo.

Come diceva Steinbeck, «un’anima triste ammazza più in fretta di un germe».

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