Politica

Utopia e ritorno dalla città dei liberi

Il Regno Unito non ha una popolazione di immigrati grande in termini numerici quanto la Francia o la Germania o in percentuale quanto l'Olanda o la Danimarca, ma vanta una politica di integrazione sociale e economica molto più consistente di qualsiasi altro Paese europeo, e forse per questo rimane, nonostante certi fattori negativi (il clima e il costo della vita in primo luogo), la destinazione di gran lunga preferita di chi ambisce a scalare i confini ufficiali della «Fortezza Europa» per inventarsi una nuova vita. E questo per tacere delle ondate di est-europei, soprattutto i polacchi che sono arrivati negli ultimi due anni: più di 650mila secondo le statistiche ufficiali, 850mila secondo quelle ufficiose.
Sempre secondo le statistiche, oltre il 70% degli extracomunitari in Europa vorrebbe risiedere nelle Isole Britanniche (nonostante sia uno Stato indipendente, con alcune politiche molto diverse, anche la Repubblica dell'Irlanda deve per forza rientrare in questo calcolo), in parte per la facilità della lingua ufficiale (quella ormai universale, l'inglese), in parte per il dinamismo del sistema economico e per la mancanza di lacci e lacciuoli burocratici per chi vuole mettersi in proprio, ma soprattutto per via del sistema di accogliere chi viene da fuori come parte della comunità nazionale, con la massima libertà di vivere dove e vicino a chi vuole. La politica del multi-culturalismo britannico (un po’ diverso dal modello originale americano) è nata come ideologia ufficiale negli anni Sessanta-Settanta ed è presto diventata una prassi consolidata. Un processo facile perché rifletteva la mentalità britannica di lasciar vivere la gente «diversa» senza imporgli troppe sovrastrutture o regole locali.
Questa in essenza la storica differenza dei sistemi di controllo degli imperi ottocenteschi: i francesi (come gli olandesi, belgi, italiani e tedeschi) cercavano di imporre le loro regole sociali e giuridiche agli «indigeni» fino ad europeizzarli, mentre agli inglesi interessava solo gestire la politica al livello più alto, e l'economia. In essenza, il multiculturalismo ha permesso alle varie comunità etniche presenti in Gran Bretagna di vivere, vestirsi e persino educarsi come volevano: con deroghe speciali, i Sikh indiani possono guidare in moto senza casco, per gli ufficiali in divisa, basta affiggere il distintivo della corona sopra il turbante «customizzandolo»; i musulmani e gli induisti integralisti possono avere le loro scuole elementari e superiori «parificate», come quelle cattoliche in Italia; si è arrivati in certe zone di Londra e Bristol a tollerare l'uso pesante di marijuana in pubblico da parte dei Rastafari giamaicani «perché parte integrale delle loro tradizioni».
A differenza degli agghiaccianti comprensori periferici francesi, dove finiscono ghettizzati maghrebini e africani neri per via dei diktat burocratici di sapore haussmanniano, gli immigrati del Regno Unito hanno scelto loro le zone e i quartieri dove creare la loro «koinè», magari con l'indulgenza delle autorità locali. Abbinata ad una aggressiva politica di «discriminazione positiva», per favorire l'inserimento dei «New British» nel mondo del lavoro, spesso alle spese degli «indigeni» bianchi (e quindi non senza malumori e risentimenti), la situazione sociale di molti extracomunitari in Gran Bretagna è diventata, negli ultimi trent'anni, persino di privilegio. Basta fare zapping sui vari canali della Bbc o delle sue rivali commerciali, per capire quanti figli e figlie del vecchio Impero britannico hanno fatto carriera in video: per tacere sul successo dietro le quinte, negli uffici di tutti i ministeri ed enti amministrativi, privati e pubblici.
La cultura ufficiale di «combattere il razzismo» e «promuovere il multi-culturalismo» è poco meno che una religione di Stato che ha sostituito quella vecchia, la chiesa anglicana. Non a caso, insieme ai nuovi astri nascenti nel mondo del business (il Sunday Times Rich List, «Gotha» dei Paperon de' Paperoni britannici, pubblica ormai anche una classifica per i miliardari extracomunitari) e dello sport (tanto i pakistani e bengalesi nel cricket, quanto gli africani e caraibici nel calcio), non manca ovviamente una nuova classe dirigente politica (i Tories di David Cameron fanno a gara con i neolaburisti di Tony Blair per promuovere candidati afro-caraibici e «sud-continentali» (indiani, pakistani, bengalesi). Per non parlare degli 8-10 deputati e ministri delle «minoranze etniche» già al potere e persino della gerarchia ecclesiastica. L'influente vescovo di Rochester si chiama Michael Nazir-Ali, un pakistano convertito dall'Islam, mentre la seconda cattedra della chiesa di Stato, l'arcivescovado di York, è attualmente detenuta da un ugandese, John Sentamu.
Questo apparente idillio dell'integrazione sociale non è ovviamente gratis, né senza prototipi falliti: i primi venti-venticinque anni dell'immigrazione post bellica, dalle isole dei Caraibi negli anni 50 (serviva manodopera per guidare gli autobus, pulire le strade e accudire i malati negli ospedali), dal «sub Continente» indiano e dall'Africa Orientale (soprattutto la pulizia etnica contro gli asiatici voluta dal dittatore ugandese Idi Amin nel 1971, 35mila abitanti espulsi verso la «madrepatria») furono irti di problemi sociali ed economici. Grande interprete del disagio degli inglesi verso i «Blacks and asians» era il politico conservatore Enoch Powell, vecchio gentiluomo di taglio romantico, grande classicista di Oxford, convertitosi in Cassandra: «Orride guerre vedo e il Tevere spumeggiante di molto sangue» predicava, scomodando Virgilio per descrivere le «guerre etniche» se la Patria non avesse bloccato il fiume umano dalle ex-colonie. Fu espulso dai Tories, le sue tesi ridicolizzate da tutti, tranne che dalla classe operaia conservatrice.
Semplice pregiudizio ed ignoranza da parte degli inglesi, un ottuso apparato statalista che mortificava gli spiriti imprenditoriali dei migliori (addavenì anche la Thatcher...), uno spirito classista ancora pervicace: le discriminazioni di varia natura erano in quegli anni a volte pesanti. Nel 1981 i primi effetti economici della «amara medicina» della cura thatcheriana hanno provocato in parte le rivolte nei sobborghi più indigenti, delle metropoli post-industriali come Londra (Brixton), Bristol (St Pauls) e Liverpool (Toxteth).
Negli ultimi anni, gli scontri sociali a sfondo etnico sono stati soprattutto fra i figli delle etnie «minoritarie» diverse (pakistani islamici contro indiani induisti, serbi contro croati) che continuano vecchie vendette su suolo britannico. I liberal inglesi più bacchettoni, ossessionati da ogni caso, per quanto microscopico, di razzismo da parte dei bianchi, ignorano con pia ottusità questi focolai di odio e di intolleranza, che invece continuano a svilupparsi sotto la rassicurante coltre del «negletto benigno» all'inglese. Malgrado le isteriche denunce da parte dei media liberal inglesi, i partitini razzisti (National Front e British National Party) non hanno mai fatto exploit significativi nelle urne. Dalle recenti sommosse sociali in città del Nord dominate dall'immigrazione asiatica (in gran parte musulmana) quale Bradford e Leeds, hanno tratto vantaggi i predicatori islamici integralisti più che i razzisti inglesi.
La provenienza «locale» degli ultimi terroristi catturati, sia nei giorni scorsi che a luglio scorso, in seguito agli attentati a Londra, ha provocato una seria riflessione da parte delle autorità e degli intellettuali sulla validità del vigente modello multi-culturale ultra-tollerante, ed una urgente denuncia dei rischi della sindrome «Londonistan», dove le varie comunità etniche complottano la distruzione della generosa cultura che li ospita.

Ma data la forte ascendenza del pensiero liberal, sempre riluttante a colpevolizzare chi non è di razza bianca e borghese, e l'indole nazionale tranquilla e tollerante, rimane in forse se l'establishment britannico avrà il buon senso di riaggiustare il tiro.

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