Valencia si rifà il look creando un’isola dal nulla

Un miliardo e trecento milioni di fatturato Diecimila i nuovi posti di lavoro creati

Paolo Marchi

Quique Dacosta è un giovane chef spagnolo della regione valenciana, è formidabile ai fornelli e negli affari. Quando ancora non era ufficiale che Alinghi avrebbe difeso la coppa a Valencia (la scelta arrivò il 26 novembre 2003, bocciata Napoli), aveva già nel cassetto un signor progetto: «La coppa porterà gente e soldi, sto studiando un posto di cibo buono ma semplice da tremila metri quadri».
Ora Dacosta è uno dei tanti imprenditori che sfrutta l’evento velico per aumentare il suo giro anche se è singolare scoprire che in un sondaggio di un paio di anni fa per la maggioranza degli abitanti di Valencia la coppa America era l’ennesimo trofeo calcistico. Hanno capito che non lo è, che si gioca sull’acqua e non su un tappeto erboso quando la città è stata rivoltata come un calzino, quando sponsor, consorzi, tivù (in Italia regate in diretta su La7), affaristi hanno preso a interessarsi alla zona.
Valencia è dominata dalle opere uscite dalla matita dell’architetto Santiago Calatrava, valenciano, lo stesso dello stadio olimpico di Atene. Accanto al suo superbo lavoro, gli interventi del designer Javier Mariscal, suo concittadino, che sabato sarà in città per vedere il risultato del suo lavoro. Gli avevano chiesto di imprimere all’area un nuovo look, capace di esprimere l’allegria e la gioia di vivere del popolo valenciano, colori e note vive, solari, cariche di echi del Mediterraneo. Gli organizzatori gli hanno detto di divertirsi e lui si è divertito nel mettere su carta immagini destrutturate secondo linee che da tantissimo attraversano l’arte e la vita della Spagna.
Praticamente impossibile dire a quanto ammonta l’investimento legato alla coppa. Siamo solo all’inizio di un’avventura che durerà due anni. Gli stessi sindacati hanno messo assieme un budget globale (e ufficioso) di 740 milioni di euro, dai 110 di Larry Ellison, gran patron di Bmw-Oracle ai 35 accreditati ai cinesi, un uomo d’affari che in pratica si è comperato l’agonizzante consorzio francese di La Defi. Però non tutti sono lì per vincere la coppa: i cinesi devono fare pubblicità alle Olimpiadi di Pechino e mostrare un volto umano e simpatico, circondati come sono di sospetti e accuse per un’economia aggressiva, altri per coltivare chissà quali interessi, vedi gli italiani di +39 o i sudafricani che hanno per armatore un italiano.
Valencia vive una posizione nuova nel panorama dell’America’s Cup: è sede senza che una sua barca abbia vinto l’edizione precedente. E anche se gli svizzeri di Alinghi sono sempre validi, pur se orfani di Russel Coutts, nel dubbio che la favola finisca nell’estate del 2007, le grandi opere sono state programmate per il presente. I 500 milioni di euro per realizzare il cosiddetto «Balcon al mar» cambia il centro per via di un’isola eretta al centro del porto per poter allestire un porticciolo per mega-yacht da raggiungere in elicottero. E un canale di 800 metri la collega al mare aperto.

Una linea metro unisce l’aeroporto al porto (tempo di percorrenza un quarto d’ora), una nuova Valencia con il pretesto della vela proprio come nel ’92 Barcellona venne rifatta per via delle Olimpiadi. Autorità e organizzatori si aspettano in due anni 10 milioni di tifosi/turisti, un fatturato di un miliardo e trecento milioni di euro e almeno diecimila nuovi posti di lavoro.

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