Venezia - Il film, suo malgrado, più ruffiano della 65ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia si chiama Pranzo di Ferragosto. Presentato ieri nella sezione della Settimana della critica, ha fatto il pieno di applausi e di consensi. Della ruffianeria il regista, Gianni Di Gregorio, è responsabile solo in parte: si capisce che il mondo degli anziani non gli è ignoto, così come ben conosce il complesso meccanismo proprio di quei figli unici di madre vedova che finiscono per non avere una vita loro perché vittime, più o meno consenzienti e consapevoli, del carattere e dell’egoismo materni.
Così il film ha una sua grazia e una sua leggerezza, le anziane attrici non professioniste recitano la loro quotidianità e quei tic, quelle manie, quelle abitudini proprie della senilità. Il rituale delle medicine con cui scandire la giornata, i colpevoli peccati di gola con cui si ritorna bambine, i passatempi delle carte e della televisione, l’abbandonarsi ai ricordi, il parlare bene dei figli anche e soprattutto se questi in realtà sono delle carogne...
La simpatia e il tratto gentile del regista, che nel film interpreta un se stesso appena riveduto e corretto, fanno il resto, a disegnare una storia priva di sbavature nella sua semplicità: la sistemazione, dietro compenso, il giorno di Ferragosto, di tre anziane signore in casa di uno spiantato moderatamente alcolizzato che vive con la vecchia mamma.
Giusto nella durata, poco più di un’ora, Pranzo di Ferragosto è insomma un divertissement garbato, di per sé tuttavia non sufficiente a spiegare l’enfasi con cui è stato accolto, enfasi che nemmeno il modesto profilo cinematografico finora offerto dalla Mostra autorizza e giustifica.
Diciamo allora che il motivo del successo è dovuto anche e soprattutto alla coda di paglia di noi italiani, mammoni e mammisti, certo, e però capaci di crudeltà più o meno volontarie, ovvero di colpevole indifferenza nel momento in cui l’età trasforma un sentimento, quello filiale, in obbligo, un affetto in peso. Siamo un Paese che sta invecchiando, ma contemporaneamente siamo un Paese in cui invecchiare è un fastidio e quasi una colpa di cui nessuno si vuole assumere la responsabilità. Il proliferare di badanti, romene e no, e di case di riposo racconta una società in cui il ciclo familiare classico si è da tempo interrotto: difficilmente i nipoti hanno una profonda e reale frequentazione con i nonni, difficilmente i figli riescono a dare ai vecchi genitori rimasti soli un conforto che vada al di là di una visita settimanale quando va bene...
Ecco che allora Pranzo di Ferragosto in fondo ci consola un po’ tutti. C’è un figlio a cui va la nostra simpatia perché fa proprio quello che noi non abbiamo voluto o saputo fare, cioè sacrifica la sua vita per quella della madre, ma il suo fallimento esistenziale, niente amori, niente soldi, ci esime dal prenderlo come esempio da imitare... Ci sono delle splendide vecchiette ancora perfettamente autosufficienti, pulite ed educate, per niente arpie, che vengono parcheggiate da un estraneo soltanto per un giorno, lasciandoci nell’illusione che negli altri 364 l’armonia familiare non venga turbata. C’è una Roma agostana, assolata e deserta, bellissima perché non periferica, ma profondamente capitolina, fra Trastevere e il centro storico, una Roma fatta ancora di botteghe e di acquisti a credito.
Paradossalmente, Pranzo di Ferragosto ci fa sentire più buoni, ci aiuta a credere che stare con i vecchi sia un piacere, che il nostro cuore italico, riconoscente, batta ancora per loro. Almeno sul grande scherno di un cinema.
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