Nelle 332 pagine della sua autobiografia pubblicata dalle edizioni Ares, La piccola tenda d’azzurro, ha dedicato a Cesare Battisti, il pluriomicida protetto dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, appena 162 parole, 1.030 caratteri, non uno di più, virgole e spazi compresi. Solo per dire che «era un malavitosetto romano dall’intelligenza vivace». A distanza di anni il giudizio di Arrigo Cavallina, fondatore dei Pac (Proletari armati per il comunismo), non è cambiato: «Ho letto in questi giorni che nel 1974 era stato denunciato anche per atti di libidine su una persona definita nei verbali “incapace”. Non lo sapevo. Pensavo che fosse soltanto un onesto rapinatore...».
Cavallina, il rivoluzionario venuto dall’Azione cattolica, mai condannato per la partecipazione diretta a fatti di sangue, oggi ha 62 anni, vive a Verona, è sposato con una farmacista, lavora al recupero dei carcerati con La Fraternità di fra’ Beppe Prioli, crede in Dio anziché in Marx, va a messa e fa la comunione, tiene in camera da letto un inginocchiatoio da chiesa e una collezione di icone russe del Cinquecento, suona il flauto traverso e non gli va di parlare dell’ex compagno: «Mi hanno telefonato persino dal Brasile, dalla Francia, dall’Inghilterra. Su Battisti non ho nulla da dire». Si porta dietro il rimorso che ha ben descritto in quelle 162 parole: «Sento una speciale corresponsabilità. L’ho conosciuto nel 1977 nel carcere di Udine, aveva voglia di uscire dalla sua condizione e trovare significati più profondi. Per sua disgrazia ha creduto di trovarli nella mia amicizia e nei miei orientamenti politici. Così, quando è uscito dal carcere, alle prime difficoltà è venuto da me a Verona. Mi chiedo quanto poteva essere diversa la sua vita, quanto male avrebbe evitato di fare, se non mi avesse incontrato». Qualcosa da dire, alla fine, Cavallina ce l’ha.
Che cosa si prova a sentirsi inseguiti dal proprio passato?
«È una pena accessoria contro cui non posso protestare. La accetto. La colpa è mia. Certo è paradossale: fra tutti i gruppi eversivi eravamo il più disgraziato, quattro acche raccogliticce, e fra tutti i terroristi salta sempre fuori proprio quello al quale dissi io di cominciare. Si vede che il carcere non basta».
Quanti anni ha scontato?
«Dodici effettivi. Il cumulo doveva essere di 22. La condanna definitiva è arrivata a 15 anni dai fatti. Di mezzo, un indulto e la buona condotta. Sono stato uno dei primi dissociati, quando ancora non esisteva la legge in materia. È merito anche mio se fu approvata. La liberazione anticipata mi fu accordata per “partecipazione all’opera rieducativa”, testuale. Ho avuto la fortuna di finire nel carcere romano di Rebibbia, dove il direttore riservò a noi dissociati un’area protetta, lontana dagli irriducibili che volevano farci la pelle. Mi ritrovai così con Alberto Franceschini (fondatore con Renato Curcio delle Brigate rosse e rapitore del giudice Mario Sossi, ndr) e Livio Lai (figura di primo piano dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari di estrema destra, ndr). Comunisti e fascisti insieme. Segno che la ricostruzione interiore dipende dalle persone, non dalle ideologie».
È dura sentirsi indicare come colui che ha arruolato Battisti?
«Arruolato per modo di dire. Battisti era già di suo l’uomo che è. Non ricordo chi di noi due uscì per primo di prigione. Ci siamo scritti per anni. Mi dispiace di non aver conservato quelle lettere. Era fuggito da Latina dopo averne combinato una delle sue, una rapina, immagino. Venne a chiedermi rifugio. Glielo trovai presso amici di Verona che poi mi hanno rimproverato duramente per anni».
Perché lei mischiò gli ideali della lotta politica con le malefatte di un delinquente di mezza tacca?
«Avevamo macinato teorie che oggi fanno ridere. In chi già praticava l’illegalità vedevamo un potenziale di ribellione contro la svendita della forza lavoro. Nel sistema capitalistico, basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, rapinare i soldi in banca era considerata una forma di resistenza. E infatti i Nap (Nuclei armati proletari, ndr), nati da una costola di Lotta continua, pescarono molto nella malavita comune».
Come mai lei non s’è rifugiato in Francia?
«In cella me lo so ripetuto spesso: meno male che non sono scappato! Credo che una vita di paura sia assai peggio di una vita in galera. Io adesso ho finito. Ho avuto quello che ho meritato, ho patito quello che ho patito. Ma oggi io sono io e non ho più niente da nascondere. Pensi invece alla condizione di chi non sa mai se la persona che sta camminando alle sue spalle è un agente che lo sta pedinando oppure un passante».
Bisogna aver pagato un prezzo per essere uomini liberi. Altrimenti come si ripara al male compiuto?
«Da operatore carcerario, continuo a pormi una domanda: perché i detenuti devono essere sterilizzati, tenuti inerti su una brandina? La mia pena non ha avuto alcunché di riparatorio. Magari Battisti non acconsentirebbe a nessuna riparazione, non è disponibile a nulla di nulla. Ma se per ipotesi fosse possibile, io gli direi: guarda, sono passati 30 anni, hai fatto i disastri che hai fatto, da adesso in poi non ti aspetta la reclusione fino alla morte però devi donare il tuo lavoro, tre quarti di quello che guadagni come scrittore di libri gialli, al figlio di Pierluigi Torregiani (ferito nell’agguato che costò la vita al padre e ridotto in sedia a rotelle, ndr), alle famiglie di Lino Sabbadin (macellaio di Mestre ucciso in un tentativo di rapina, ndr), di Antonio Santoro (maresciallo della polizia penitenziaria assassinato a Udine, ndr), di Andrea Campagna (agente della Digos ammazzato a Milano, ndr). Va’ a sospingere Torregiani costretto in carrozzella, va’ a fargli da badante».
Un po’ troppo comodo.
«In un libro dell’abate Giovanni Franzoni, Il diavolo è mio fratello, ho trovato un’immagine che mi è piaciuta tantissimo. Il teologo benedettino scrive che preferirebbe pensare a Hitler non come a uno che brucia per sempre all’inferno, ma come a uno che sulla porta del paradiso è condannato a stendere il tappeto sotto i piedi di ogni ebreo che entra».
È giusto che una persona colpevole di quattro delitti possa godere dell’asilo politico in un Paese straniero?
«Battisti è stato condannato in contumacia all’ergastolo con sentenze passate in giudicato che lo definiscono assassino. Ma lui non dice ai francesi o ai brasiliani: sono un assassino politico, quindi accoglietemi, bensì sono un perseguitato da sentenze emesse in Italia utilizzando i pentiti e le leggi speciali. Si fa passare per innocente, sostiene che militava semplicemente in un’area rivoluzionaria ma, siccome era latitante, gli hanno scaricato addosso tutte le colpe. E fra l’altro rischia di veder aumentare il numero degli intellettuali che ci credono. Su questa sua contestazione io non mi esprimo. Tanto sa benissimo come la penso. Ma non voglio parlarne».
Se lei fosse stato condannato in contumacia per omicidio, oggi che farebbe? Fuggirebbe o si consegnerebbe?
«È difficile immedesimarsi in un’evenienza astratta. Probabilmente valuterei in concreto che cosa prevede la condanna. Mantiene aperta una porta o no? Mi sembra che Adriano Sofri sia stato trattato in modo tutto sommato civile. In una situazione meno civile credo che ciascuno di noi, anche lei, farebbe il calcolo se scappare o consegnarsi. A meno che non si consideri talmente colpevole da covare un desiderio di autodistruzione».
Non mi ha risposto.
«Non è un sottrarsi a una responsabilità, ma un sottrarsi a una conseguenza che rischia soltanto di aggiungere male a male. Se invece da una responsabilità deriva una conseguenza riparatoria, allora sì che viene preservata la funzione rieducativa della pena».
Sbagliano le autorità italiane a pretendere l’estradizione di Battisti dal Brasile?
«Non sbagliano.
E se lei fosse il presidente Lula che cosa risponderebbe?
«Per fortuna non lo sono».
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