Viaggio a 5 sensi nell'isola dei sapori che torna alle radici

Marco Zucchetti

nostro inviato a Oristano

Se non fosse un sacrilegio rinunciare al «sole che scintilla nell'aria ovunque», come scriveva Vittorini, si potrebbe vagare per la Sardegna ad occhi chiusi senza perderne l'essenza. Perché forse non sarà il paradiso cantato da De André, ma è impossibile muovere un passo senza sentire il profumo dell'elicriso, il gusto della salsedine, il rumore del vento. Basta cercare dove ancora la terra si ostina a rimanere fuori dal tempo, aggrappata alle sue radici.

La zona occidentale che va dalla valle del Tirso fino ai boschi del Sulcis non è tra le più frequentate. Tra paesini dalle mura senza intonaco e campagne selvagge, di sicuro e per fortuna non è trendy. I locali dove si ordinano magnum di Cristal e il GuacAmore beach dedicato al guacamole li lasciano volentieri alla Costa Smeralda. Qui è un'altra vita. La gioia è l'anguilla al pecorino gustata in terrazza in un ittiturismo sullo Stagno di Cabras, tra i fenicotteri rosa. È l'«altra» isola, dove ancora si ricorda quando le osterie si chiamavano vernaccini, perché chiunque - dal ragazzino al vecchio contadino - consumava solo Vernaccia di Oristano: in ogni bar 600 litri a settimana.

Il DOC più antico della Sardegna è stato brutalizzato dalle falsificazioni con vini ossidati siciliani e quasi dimenticato negli anni '90. Ma oggi prova a rinascere grazie soprattutto a Silvio Carta, l'azienda che esporta questo vino forte e particolare perfino negli Usa. Entrare in cantina è un'esperienza olfattiva unica. I lieviti della doppia fermentazione nei centenari barili di castagno regalano alla Vernaccia invecchiata l'inconfondibile aroma di mandorla, che con la bottarga di muggine o il fiore sardo crea alchimie inspiegabili. Sorseggiarla mentre l'aria secca e odorosa che arriva dai mirteti di Baratili entra fin nel cortile dove Elio Carta racconta i 66 anni di storia dell'azienda di famiglia, è come vedere l'identità di un popolo prendere forma liquida.

Ma cos'è la vera Sardegna oggi? Scheggia sopravvissuta di un mondo antico o yacht ormeggiati nelle calette, il Billionaire o una tavola perennemente imbandita di formaggi, pane e pesce alla brace? In alambicchi d'acciaio, Elio Carta prova a distillarne l'essenza, sotto forma di superalcolici. Tutti a base di prodotti locali. Il mitico Mirto Pilloni, certo. Ma anche la grappa, i vermut di Vernaccia (sfizioso quello bianco, che il barman Andrea Lai serve miscelato con menta, limone e prosecco), il limonello e la liquirizia. Fino al gin, che - se l'isola avesse occhi per piangere - le sue lacrime dovrebbero per forza profumare così.

«Giniu» è stato il pioniere più puro, distillato da solo ginepro coccolone locale. L'invecchiato «Pigskin» e l'agrumato «Boigin», gli altri due gin della casa, sono stati creati aggiungendo alle botaniche foglie di mirto, lentisco, finocchietto selvatico, scorze di limone, timo, elicriso e salvia Desoleana. Tutte piante indigene, coltivate in terreni in riva al mare e nell'orto botanico adiacente all'azienda. Passeggiandoci dentro sotto la pioggia, come nel pineto dannunziano, è impossibile non accarezzare le «coccole aulenti». Il profumo rimane incollato alle dita, rapisce le sinapsi. Chi lo dice che bisogna per forza essere passatisti per mantenere un'identità? Non si vive di solo filu 'e ferru: si può essere sardi veri anche se si pasteggia a gin tonic e polpo arrosto.

Nessun cocktail può comunque insidiare un monumento come il vino rosso. Giustamente tutelato come i nuraghi, perché dietro c'è la stessa ancestrale cultura, da preservare e tramandare. La missione di Cantina Santadi e Agripunica, incastonate nell'aspro Sulcis a pochi chilometri dalle spiagge di Porto Pino, è questa: difendere e far conoscere l'enologia sarda, portata all'eccellenza da Giacomo Tachis, ma ancora sottostimata. Oltre a Vermentino e Cannonau c'è di più. C'è il cultivar più autentico del territorio, la cui espressività si racconta sia dovuta alla qualità unica della luce che cade sui vitigni e sui terreni sabbiosi: sua maestà il Carignano.

Cantina Santadi è una cooperativa di duecento soci, nata nel 1960, che produce qualcosa come 1,7 milioni di bottiglie l'anno, con interessanti divagazioni perfino nello spumante metodo classico «Solais». Ci si arriva per una strada che accarezza zone di bellezza selvatica e visitarla è un'altra tappa essenziale nel tour multisensoriale alla ricerca della Sardegna da bere. La sala di degustazione mette soggezione, si respirano quarti di nobiltà enologica. La barricaia è un sacrario opulento dove riposano vini eccellenti come il Rocca Rubia e soprattutto il Terre Brune, Carignano DOC superiore, uno dei due solisti sul palcoscenico vitivinicolo del Sulcis.

L'altro è il «Barrua» della cantina gemella di Agripunica, che dal 2002 è anche pilastro dell'occupazione locale.

In Barrua il Carignano viene arrotondato dal 15% di uve internazionali e diventa il più autorevole monito alla finezza e alla qualità di una terra di centenari troppo spesso malintesa. Un'isola «diversa» che sa aprirsi al mondo e dove ogni senso trova appagamento. A partire dal bicchiere.

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