Caro governo, cari onorevoli, carissimi senatori, illustri burocrati e boiardi di Stato, considerate le vostre difficoltà a comprendere questioni a forte valenza tecnica, lasciatevi «aiutare» dagli esperti (quelli veri) che si dichiarano a vostra completa disposizione per una riscrittura delle regole a quattro mani.
È la traduzione sintetica del pensiero di Paolo Vitelli, ex presidente Ucina, da quarantanni patron dei cantieri nautici Azimut, tra i leader mondiali di costruttori di yacht. Si riferiva, il presidente del gruppo di Avignana, alla bandiera tradita non già dai ricchi armatori, ma dai signori destinatari dellappello. Che hanno fatto scappare i buoi dalle stalle. La bandiera, ovviamente, è quella italiana: il Tricolore che ormai sventola quasi invisibile solo su gommoni e natanti. Le altre imbarcazioni, quelle oltre i 24 metri, in teoria una miniera doro per la nostra economia, lasciano sul territorio ogni anno il 10% del loro valore allacquisto: costi di gestione, equipaggio, rifornimento, spese di ormeggio, riparazioni, spese turistiche. Ma non sul nostro territorio. È infatti la bandiera inglese quella attualmente più «issata» sui grandi yacht.
Inglesi furbacchioni? «Diciamo realisti e intelligenti - dice Paolo Vitelli - Registrare queste barche sotto la propria bandiera nazionale significa molte cose: dallacquisto al leasing, fino ai fornitori. Questo lo sanno anche i francesi che hanno adeguato la Costa Azzurra alle esigenze di questa clientela. ottenendo grandi ricadute sulle loro economie locali. Da noi è diverso, abbiamo un problema storico che si trascina irrisolto da almeno 30 anni. Il tricolore sulle nostre barche è sempre stato sinonimo di evasione fiscale. E intanto quelle costruite in Italia, se ne vanno allestero e battono preferibilmente bandiera inglese o francese. Abbiamo provato anche la via del registro navale internazionale. Non funziona. Di qui la richiesta al Parlamento: una rivisitazione di alcune norme avrebbe rappresentato la chiave di volta per la soluzione del problema. Probabilmente abbiamo perso un altro treno».
Infatti sembra che largomento non affascini più di tanto i rappresentanti del popolo, impegnati di questi tempi a mugugnare sulla possibile decurtazione dei propri emolumenti: «Ben venga - aggiunge Vitelli - ma è pura demagogia. Che non risolve i problemi».
LItalia è il secondo produttore al mondo e primo in Europa nella costruzione di barche oltre i 24 metri, ed è leader assoluto con un portafoglio ordini al 51% della produzione mondiale. Vale a dire la quinta forza dellexport italiano. Ma pur producendo la metà di queste navi, meno dell1% batte bandiera nazionale. Ovviamente con una quota di ormeggi risibile. Ma perchè questo stato di cose?
«Forse - aggiunge Vitelli - non si è ancora capita limportanza e la ricaduta occupazionale sui territori. Forse la burocrazia non è in grado di riscrivere tecnicamente le regole. Noi siamo pronti a fare la nostra parte, disponibili a collaborare con il governo per quanto riguarda le nostre competenze in materia. Al danno, però, si aggiunge la beffa perché la nostra normativa dal punto vista fiscale sarebbe competitiva, anche meglio di quella inglese».
Si tratta, infatti, della cosiddetta legge 172 del 2003 che ha esteso a queste unità alcuni benefici che si applicano ai mercantili, a condizione che non siano usate per scopo privato ma solo con impiego in via esclusiva per noleggio e finalità turistiche. Dimenticando però un dettaglio: queste unità nascono e restano navi da diporto e quindi, soggette al codice della nautica.
«Sono stato a Montecarlo - continua Vitelli - in occasione del Gran Premio di F1. Ho visto molte barche costruite in Italia, quasi tutte. Ho visto con piacere anche quelle di Azimut Benetti. Ma non ho visto un equipaggio italiano. E pensare che gli armatori arrivano a pagare 100mila euro per un ormeggio. Non a caso gli inglesi guadagnano di più con questo tipo di servizi che noi con tutta la nostra produzione. Ma la nostra burocrazia è sorda». Eufemismo.
In pratica ai megayacht vengono applicate tutte le procedure delle petroliere, incluse le autorizzazioni complicatissime per lingresso e luscita dai porti. Esempio: se un emiro o un armatore qualsiasi, vuole noleggiare in Italia una barca per sé e per il suo seguito, spendendo centinaia di milioni di euro, ha bisogno di uno stuolo di avvocati.
Ucina-Confindustria Nautica si batte da anni contro queste ottusità che impediscono, colpevolmente, il rilancio in grande stile di tutta la filiera: dai cantieri, ai porti, ai ristoranti, fino allo shopping.
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