Ferruccio Repetti
Di «gola profonda» del Watergate, a Genova qualcuno sapeva già, e in epoca assai precedente alla rivelazione dei giorni scorsi, in America, da parte del presunto delatore delle trame dei nixoniani nel quartier generale del partito democratico, durante la campagna per le presidenziali 1972. «Quando sono risuonate, col clamore delle grandi occasioni, le confessioni del vicedirettore dell’Fbi, autorevole polizia federale americana e autentica lobby di potere all’interno del sistema a stelle e strisce - spiega un noto manager genovese di vasta esperienza nel settore industriale e finanziario, che preferisce mantenere l’incognito - mi è tornata in mente la visita nella città della Lanterna di un certo Peter Rodino, nel lontano 1982...». Riserbo sì, dunque, ma solo sul nome della «nostra» gola profonda. Che difatti parla a ruota libera. E ricorda di aver incontrato, a dieci anni dallo «scandalo», quel certo Rodino, in realtà proprio il grande avvocato di New York, «figlio di quell’America affermata, un po’ italiana di seconda generazione», ma noto soprattutto, anche oltreoceano, per aver presieduto la Commissione Giustizia del Campidoglio a Washington ed essersi adoperato per sostenere l’impeachment (la formale messa in stato d’accusa) del presidente Richard Nixon per lo scandalo seguito all’effrazione e allo spionaggio nelle stanze dell’albergo Watergate. «Un bel personaggio, Rodino. Durante il suo soggiorno in Italia - spiega il manager in incognito che aveva accompagnato l’avvocato in lungo e in largo per l’Italia - lo incalzai di domande sui fatti che erano costati la presidenza a Nixon. Domande, in fondo, lo riconosco, un po’ ingenue, visto l’argomento, che ancora bruciava, e il sacrosanto pudore degli americani per le loro cosiddette malefatte». Ma l’insistenza venne finalmente premiata: «Dopo aver stabilito con il mio interlocutore un buon rapporto confidenziale - aggiunge il testimone - un giorno, a San Gimignano, alla mia ennesima richiesta, ricevetti la risposta». Letteralmente: «Ormai da noi, negli ambienti della capitale - si lasciò andare Rodino - non ci si fida nemmeno più del lattaio, figuriamoci quali sono i rapporti fra Cia (il servizio segreto) e l’Fbi». Il tutto pronunciato con un tono fra il sarcastico e il rassegnato.
Quale fosse il significato dell’affermazione-rivelazione, pronunciata da una delle persone indubbiamente meglio informate sui fatti, è evidente. Tanto più ora, alla luce della dichiarazione-confessione del vice del Federal bureau of investigation, il novantenne (e malandato in salute) Mark Felt: Rodino aveva accostato per la prima volta intelligence e polizia federale all’affare Watergate, fino ad allora confinato in non meglio precisati ambienti politico-parlamentari decisi a «vendicarsi» dei successi di Nixon in politica estera (uscita dalle secche del Vietnam, avvio delle relazioni con la Cina di Mao e l’Unione sovietica di Breznev) oltre che dei favori popolari conquistati sul campo (un’elezione, quella del secondo mandato, praticamente plebiscitaria). Il racconto del manager in vena di ricordi ormai storici prosegue. E aggiunge nuovi particolari sull’età del Watergate: «E sì, perché - sottolinea sempre lui, esibendo una fotografia scattata in uno di quei party che in America si organizzano davvero anche se a noi sembrano invenzioni da soap opera - una sera mi capitò di partecipare a un ricevimento in cui la faceva da protagonista nientepopodimeno che il mitico Bob Woodward, il gemello siamese, nel senso di cronista d’assalto, di Carl Bernstein. Come dire: i due che avevano fatto fuori, politicamente, è ovvio, il presidente degli Stati Uniti!». L’italico manager si stropiccia gli occhi: «Eravamo ad Alexandria, il sobborgo più chic della buona borghesia della capitale, Washington Dc, mica bruscolini. Ed ecco che davanti a me mi trovo Woodward, in carne ed ossa, allora vicedirettore del Washington Post». Troppo forte la voglia di interrogare anche lui, fargli dire di tutto e di più sul Watergate, su gola profonda, sui retroscena, su come ha fatto uno che gli avversari chiamavano Dicky Tricky, che era diventato ricco e famoso come avvocato, ed era stato otto anni vicepresidente con Eisenhower, come ha potuto uno così farsi fregare quando aveva già la vittoria in tasca...
Ma Woodward, in quell’occasione, sembra scantonare: si mette al pianoforte - i maligni dicevano che, fortuna e gola profonda a parte, lui riuscisse meglio alla tastiera musicale più che a che a quella del pc in redazione - e si mette a disegnare melodie, molte delle quali italiane o meglio napoletane, in evidente omaggio all’ospite del Bel Paese. «Ma io - confessa oggi il manager - non sono uno che si demoralizza. Torno alla carica, so che non devo perdere l’occasione. E mi faccio raccontare qualcosa che va oltre il Watergate, ma, forse, lo spiega perfettamente: lo spirito, cioè, dell’America di ieri e di sempre, piena di contraddizioni, ma risoluta a mantenere fede alle promesse e alla parola data fino alle estreme conseguenze. Fino all’impeachment, se occorre». È l’America che si indigna, non può accettare che un presidente, il suo Presidente, l’uomo più potente del mondo, si macchi di una doppia infamia: spionaggio politico e menzogna. Che poi sia stato lui, Nixon, in prima persona, o qualcuno del suo staff, e che, in sei anni di governo repubblicano, gli Stati Uniti abbiano rialzato la testa e allacciato le fila del dialogo con le altre Grandi Potenze mondiali aprendo prospettive di pace e sviluppo economico per l’intera umanità, non conta. «Bubbole, in confronto al valore supremo della sincerità. Come da noi, del resto. O no?».
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