Politica

Matteo e la maledizione del 40% alle Europee

Il rampante quarantenne ha perso il quid. Non parla più alla pancia del Paese. Ora arranca e perde il fascino elettorale

Matteo e la maledizione del 40% alle Europee

Renzi ha perso il quid. Non parla più alla pancia del Paese, neppure al cuore, tanto meno al cervello. Il rampante quarantenne che sfidava spudorato i vertici del Pd ora arranca, non stupisce, non incanta e perde il fascino elettorale. Quello che è strano è che tutto questo sta avvenendo in poco tempo. Ed è come un fuoco fatuo, di quelli che bruciano in fretta. La controfigura di Fonzie con il giubbotto nero e i pollici alzati ora puzza di perdente. Questo è il vero caso politico delle amministrative. Non è vero che non contano nulla, perché (sono il sintomo concreto di quanto si legge da tempo nei sondaggi sulla fiducia individuale. Il premier viaggia sotto quota 30 per cento, quella che politologi e analisti considerano una sorta di febbre del consenso. Quando si va al di sotto di solito si cade. Se Renzi resiste a Palazzo Chigi è perché in Parlamento è stato bravo e furbo nel raccattare e ricomporre pezzi di maggioranza. Ma fuori dal Palazzo è un'altra storia. Quegli stessi alleati utili nei corridoi di Camera e Senato sono una zavorra elettorale. Verdini è un equilibrista della politica parlamentare, un magnifico acrobata, ma non ha portato voti. Alfano, Casini, gli ex montiani e tutta la galassia centrista sono professionisti della poltrona ma è tutta gente da percentuali irrilevanti. Hanno ambizioni democristiane ma senza averne il peso. Di fatto Renzi ha sbagliato alleati. Si è smarcato dalle paturnie della sinistra masochista, ma il fantomatico «partito della nazione» resta un progetto di carta, senza fiato e sostanza. Senza carne.

Il sospetto è che Renzi paghi, appunto, quel 40 per cento delle elezioni europee. L'illusione di un Pd pigliatutto, un Pd rinnovato, un Pd che in quattro mosse cambia la faccia degli italiani. È da lì che viene la scommessa delle riforme istituzionali. È da lì che arriva la sicumera di dire: se perdo lascio tutto. Come si fa a perdere se da solo sei a un passo dalla maggioranza assoluta? Peccato che quelle elezioni fossero uno specchio bugiardo. Primo, nei numeri. Il 40 per cento nasconde la disillusione di chi non andò a votare o scelse schede bianche e nulle. Furono la maggioranza. Ma Matteo finse di non vedere. E così si gonfiò, si ubriacò, si sentì un predestinato, uno che non doveva chiedere nulla a nessuno. Quel successo fittizio ha cambiato Renzi o, semplicemente, gli ha tolto la maschera. L'audacia si è trasformata in arroganza, la leggerezza in irritazione, la sagacia in furbizia da fiera delle tre carte, le promesse in chiacchiere, i programmi in slogan, la simpatia in antipatia. La presunzione gli ha fatto commettere anche l'infelice scelta di trasformare il voto sulla riforma costituzionale in un referendum su di lui, convinto che l'Italia e gli italiani fossero ancora innamorati di lui, alimentando e compattando il voto contro. E a questo va aggiunto il clamoroso errore di snobbare le amministrative, anticipando di fatto la campagna elettorale per il referendum. Morale: comparando i voti di queste elezioni il «no» avrebbe il 62,5% mentre il «sì» appena il 37,5%.

Il Renzi di oggi è un uomo solo seduto sulla poltrona di Palazzo Chigi. Ha rottamato i vecchi senza creare nel Pd una classe dirigente di alto profilo. Questo perché Matteo non si fida praticamente di nessuno. Non riconosce i propri limiti né tantomeno i propri errori. Si è concentrato sulla conquista di pezzi di potere, snobbando il disagio degli italiani, così perfino Fassino, non certo un gufo della minoranza, sottolinea che il voto riflette una situazione di crisi sociale. Ha creduto di aver sempre ragione, che fossero solo gli altri a sbagliare, e questo ha fatto sì che l'Italia diventasse ai suoi occhi terra di gufi e sfigati.

E su tutto questo l'ombra del cinismo, il potere per il potere, le epurazioni e la sensazione che chi tocchi Renzi non la passi liscia.

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