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Il giudice sbrogliamatasse diventato il talismano di Renzi

Raffaele Cantone guida l'Autorità anticorruzione ma è anche l'uomo buono per tutte le occasioni: clava anti-Bindi o difensore di Marino

Il giudice sbrogliamatasse diventato il talismano di Renzi

Si chiama Raffaele Cantone, ma a poco a poco sta cambiando il cognome in Cassazione. È l'ultima istanza dell'Italia renziana, la parola finale sui travagli nazionali, l'amuleto da toccare per risolvere ogni italico guaio. Un tempo ti disperavi se non sapevi a quale santo votarti? Bene, questo è un tempo benedetto perché c'è San Cantone, il magistrato per ogni occasione. Si libera un posto da ministro? Mettiamoci Cantone. C'è da scegliere un candidato alle regionali (ma anche al Parlamento compreso quello europeo) per aggirare imbarazzanti primarie? Ecco Cantone.

Addirittura il Quirinale poteva essere un approdo adatto per Cantone. Bisogna mostrare che l'Italia è inflessibile con gli appalti Expo? Si crea un'Autorità anticorruzione e le si pone a capo Cantone. Va aggiustata la legge Severino, che funzionava alla grande per Berlusconi ma non per De Magistris, De Luca e altri amministratori di sinistra? È pronto un parere di Cantone. Egli è il nuovo talismano, l'ultimo dei salvatori della patria, un tecnico meno saccente di Mario Monti, più presenzialista di Carlo Cottarelli, più chiacchierone di Guido Bertolaso.

Ma il dottor Cantone è anche più abile di tutti quanti loro. Perché dai oggi, dai domani, ormai sta rubando la scena a chi l'ha issato al vertice dell'Autorità nazionale anticorruzione, cioè Matteo Renzi. Il cinquantunenne magistrato napoletano (è di Giugliano dove ancora vive con la famiglia) ormai è lo sbrogliatutto. Dovrebbe limitarsi a controllare la correttezza degli appalti, segnalare le irregolarità alle prefetture e chiedere il commissariamento delle imprese sospette, mentre non c'è questione sulla quale non si pronunci. Negli ultimi giorni ha spiegato perché Marino non può dimettersi da sindaco di Roma, ha dato pareri sulla legge Severino, ha sgridato i governatori del Nord che non vogliono altri clandestini, si è scandalizzato per le inchieste sul calcio, ha tirato le orecchie a Rosy Bindi per la lista degli «impresentabili».

Lo scontro con la presidente della commissione parlamentare Antimafia è illuminante. Prima del voto regionale, Cantone aveva scelto il riserbo. Una volta acquisito il risultato favorevole al Pd, ha dettato la linea con un'intervista all'amata Repubblica : la Bindi ha commesso «un grave passo falso, un errore istituzionale», perché dovrebbe limitarsi a «studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni»: cioè lasciar fare a lui. Che infatti ha suggerito a Renzi la strada da seguire con De Luca in Campania, ovvero una sospensione soltanto dopo l'insediamento e la nomina della giunta.

Ormai è Cantone a togliere la castagne dal fuoco del Pd, lo sbrogliamatasse di Renzi, il biglietto di visita da presentare in caso di guai. Il premier l'ha candidato alla Giustizia prima di Orlando, alle Infrastrutture dopo Lupi, al Quirinale dopo Napolitano, alla regione Campania dopo le primarie vinte da De Luca; Bersani lo voleva deputato, europarlamentare e sindaco di Napoli al posto di De Magistris. È la nuova autorità morale del Paese, la vestale della legalità che mette d'accordo tutti: infatti il Parlamento l'ha votato all'unanimità a capo dell'Anticorruzione.

Quel voto compatto l'ha molto gratificato: benché sia vicino al Pd e non perda occasione per bacchettare la Lega (per lui «il federalismo è un grande regalo alle mafie»), Cantone è molto attento a mostrarsi bipartisan. A chi gli ricorda di aver partecipato alla Leopolda renziana ribatte di essere andato pure ad Atreyu di Giorgia Meloni e di sentirsi slegato anche dalle correnti togate: è iscritto al Movimento per la giustizia soltanto perché era la corrente di Giovanni Falcone, il suo mito.

Ha sempre negato di voler lasciare il lavoro di magistrato, e c'è da credergli. Cantone preferisce essere cooptato che votato: «Anche dieci voti della camorra inquinano il voto libero», disse una volta. E lui mai potrebbe rischiare di macchiare il curriculum sottoponendosi al voto popolare. «Sono un magistrato e penso che ciascuno debba fare al meglio il suo mestiere», ripete come un mantra. Ma il rifiuto della candidatura diventa la migliore autocandidatura a qualche carica istituzionale perché rafforza l'immagine di un «distacco impegnato» che Cantone coltiva con puntiglio. E Renzi, che crede di averlo creato e se lo gioca come l'asso di briscola («Il lavoro che svolge l'Anac di Cantone sta diventando una buona pratica a livello mondiale», disse al ritorno dal G20 in Australia), sembra non vedere l'ora di piazzarlo su qualche bella poltrona. Anche soltanto per avere meno ombra.

All'inizio della carriera, Cantone non era così presenzialista. Dopo la laurea (presa nemmeno 23enne, sottolinea con orgoglio) voleva fare l'avvocato ma optò per i concorsi pubblici, prima all'Inail poi in magistratura. Mai scritto una sentenza, mai fatto il giudice, soltanto il pubblico ministero prima alla pretura circondariale di Napoli (criminalità comune), poi alla procura presso il tribunale (reati societari e tributari) e infine, dal 1999 al 2007, alla Direzione distrettuale antimafia dove è diventato il più famoso pm anticamorra d'Italia. Roberto Saviano ha usato le sue inchieste come brogliaccio per «Gomorra» regalandogli fama sconfinata.

Per togliere pressione alla famiglia che vive blindata (moglie avvocato, due figli studenti di 20 e 17 anni, la maggiore è attivista dei Giovani democratici con simpatie civatiane), Cantone si fece assegnare al Massimario della Cassazione. Seconda linea e seconda vita. Perché «un giudice che non porta nella società le sue battaglie fa a metà il suo lavoro», ha detto di recente al Foglio . Un magistrato ha un «ruolo pedagogico», deve parlare, esporsi, combattere nella vita sociale. E così Cantone il censore, il pedagogo, guida illuminata del popolo corrotto e castigamatti dei politici depravati, ha cominciato a dare interviste, apparire in tv, partecipare a eventi, tenere conferenze, sfornare libri (editi da Rizzoli e Mondadori). Tre di essi sono scritti a quattro mani con Gianluca Di Feo, che nel 1994 firmò con Goffredo Buccini lo scoop del Corriere della Sera sull'avviso di garanzia a Berlusconi e ora lavora all' Espresso della famiglia De Benedetti, il giornale che lo scorso dicembre ha proclamato Cantone «uomo dell'anno».

La scelta presenzialista è dunque meditata e oculata. E così la strategia da accentratore. Cantone ha voluto ampi poteri per l'Anticorruzione, che Renzi ha impiegato mesi a concedergli. Voleva competenze larghissime e nessuno a fargli scudo perché non intendeva fare il parafulmini o il capro espiatorio. Questo tratto lo avvicina molto al premier: anche Renzi, se potesse, si assegnerebbe poteri speciali. Entrambi garantiscono che, finito il loro servizio romano, torneranno ai lidi natali. Il mandato di Cantone, retribuito con 180mila euro annui, scade fra un quinquennio. Si comporterà come Cincinnato, garantisce, che «non fece proprio una grandissima carriera politica». Errore storico ma paragone azzeccato: la « spes unica imperii » dei romani (così lo dipinse Tito Livio) fu eletto console e due volte dittatore. Il sogno di Matteo Renzi.

E forse anche di Raffaele Cantone.

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