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"Finita l'era dei governi tecnici". Meloni guarda alle Europee: ok della Camera a fine maggio

Il voto di giugno 2024 sarà uno spartiacque. Giorgia punta tutto sul premierato e frena sull'autonomia leghista

"Finita l'era dei governi tecnici". Meloni guarda alle Europee: ok della Camera a fine maggio

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"Finita l'era dei governi tecnici". Meloni guarda alle Europee: ok della Camera a fine maggio

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Giorgia Meloni mette sul tavolo una delle grandi bandiere del centrodestra, su cui lei stessa in prima persona si è battuta per un decennio. Dal lontano 2013 e lungo due lustri in cui - a differenza di Fdi - gli altri partiti dell'attuale maggioranza si sono trovati per scelta o necessità a far parte di maggioranze di compromesso (il Pdl con Letta, la Lega nel Conte 1, sempre la Lega e Forza Italia con Draghi).

Sul punto, insomma, la premier può far valere una coerenza che nessuno può rivendicare. E al di là delle tecnicalità su come sarà la riforma che prevede l'elezione diretta del premier (il Consiglio dei ministri dovrebbe vararla venerdì), il dato politico è tutto qui. Ed è la ragione per cui Meloni si è decisa ad accelerare, con l'obiettivo di arrivare al via libera in uno dei due rami del Parlamento (la Camera) entro fine maggio, cioè alla vigilia delle elezioni Europee del 9 giugno.

Magari recuperando terreno sulla riforma dell'Autonomia differenziata su cui lavora il Senato, carissima alla Lega e mai troppo amata da Fdi e Forza Italia (partiti che al sud raccolgono molti voti). Saranno le Europee, dunque, lo spartiacque delle legislatura. Perché si vota con il proporzionale e sarà necessariamente una corsa fratricida. E perché le tensioni delle ultime settimane hanno acuito diffidenze e timori, per cui l'ipotesi che di qui a un anno lo scenario possa cambiare non è più un'ipotesi di scuola. Ecco perché Meloni vuole presentarsi alla campagna elettorale europea con in mano lo slogan che la caratterizza da ormai un decennio. «Mai più governi tecnici», dirà venerdì nella conferenza stampa post Consiglio dei ministri.

E infatti il ddl sul premierato prevede una norma anti-ribaltone per cui in caso di caduta del presidente del Consiglio eletto, un nuovo governo può esserci solo se guidato dallo stesso premier o da altro esponente della maggioranza comunque già eletto. Un «buon compromesso», si limita a dire in Transatlantico il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, reduce dal vertice di Palazzo Chigi. In verità, sullo sfondo resta la complessità di una riforma non solo politicamente divisiva ma anche con alcune criticità.

Al di là della brutta abitudine italiana ai ribaltoni, una riforma così stringente renderebbe impossibili non solo i governi tecnici (Mario Draghi, per dire, non era un eletto) ma anche gli esecutivi di larghe intese in situazioni di emergenza nazionale. In Israele è successo in questi giorni per una guerra drammatica, ma è uno scenario che potrebbe presentarsi anche in condizioni meno estreme come una crisi economica o una nuova pandemia. È questo il grande limite della riforma. Che, filtra da Palazzo Chigi, è il frutto anche di interlocuzioni con il Colle.

Circostanza che al Quirinale raccolgono con enorme distacco: «Non ci è stata mandata alcuna bozza e comunque il capo dello Stato certo non si occupa di valutare una riforma che lo coinvolge direttamente».

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