Cronaca locale

Arena, lo stadio dell'800 che non ama lo sport

Buffalo Bill vi ha portato il suo circo western due volte Ciclismo, atletica, calcio e rugby: nessuna è resistita

L'eco dei cheyenne non giunse mai. Eppure, quando ne vedeva o ne sentiva la presenza, perdeva le staffe. Era accaduto al Warbonnet creek e il poveretto subì l'oltraggio dello scalpo. Lui, che era un indiano vero. William se ne andò con il ciuffo in mano. Da soldato unionista. A suo modo, aveva vendicato Custer. Una nemesi al contrario. Warbonnet creek non era alle spalle del Castello, ma stava laggiù nel Nebraska. Terra di butteri e piccoli eroi. Cavalieri dell'esercito e Toro seduto. Perché i cheyenne si erano alleati con i sioux. Tutti contro il generale.

L'eco non giunse mai. Ma quando William Cody arrivò a Milano era già Buffalo Bill. E gli indiani se li trovò davanti per davvero. Faticò a credere ai suoi occhi. Ancor di più stentò a spiegarsi che quei nativi erano cattolici come lui e le Missioni li proteggevano. Erano gli anni Novanta dell'Ottocento e lui si era convertito da poco. Aveva incontrato Leone XIII, che di mestiere faceva il papa, e si ritrovò davanti quelle piume che confessavano il suo stesso credo. La tentazione di scannarli o scuoiarne la chioma fu forte, ma dovette trattenersi. Facevano parte dello spettacolo. Pardon, del circo. Anche se erano indigeni americani.

Del vecchio West rimaneva solo questo. La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può sterzare di lato. E cadere. Questo segnò la sorte dei bisonti. I baffi di William. E il suo mestiere. In nome della Pacific railways, ne aveva uccisi quattromila per liberare i luoghi dove avrebbero corso i treni. E rifornire di carne il pranzo di chi costruiva la ferrovia. Buffalo Bill non era un angelo sterminatore e, quando esaurì il suo compito, smise di uccidere quegli animali. Gli avevano detto che erano troppi. Infestanti. E andavano ridimensionati. Anche se non facevano del male a nessuno.

La conquista della frontiera valeva tutto negli States. Vite di uomini e bestie. Indiani e bufali. Nel mirino del progresso. Ossessione a stelle e strisce. Finì che i primi sparirono mentre gli altri vivono felici in quelle praterie. Nipotini degli avi impallinati dal buttero. Ma questa non era la storia da raccontare a Milano. E all'Arena entrarono i pellerossa, non i bovini. Nel Buffalo Bill's wild west show i cowboy vincevano. Toro seduto e Alce nera finivano scornati. Quel circo yankee che puzzava di selvaggio piaceva anche agli impomatati cavalieri di fine secolo con cilindro e bastone. E accese il lampo della sfida ai contadini di casa nostra. Quelli che non mangiavano hamburger e patatine. Ma formaggio con le pere.

E lanciarono il guanto a Buffalo Bill per vedere chi fosse il più grande nella doma dei puledri. Vinsero gli uomini dalle scarpe grosse e il cervello fino che venivano dalle paludi dell'Agro pontino. A Cody non restò che tornarsene a casa. Sconfitto. Il mandriano aveva perso il suo rodeo in trasferta. Ma tornò. L'Italia era in piena età giolittiana. Correva il 1906 e lui era diventato un distinto vaquero di sessant'anni. Riportò i suoi cavalli all'Arena dando fiato a una tradizione che i carabinieri avrebbero consolidato.

La festa dell'Arma era di casa in via Byron, un altro dei lord che passarono da qui e lasciò in eredità il suo cognome a una via che quij di Milàn e forestieri di vari natali e passaporti ignorano da sempre. Senza rimpianto né vergogna. Eppure è da lì che si entra. E quando toccava ai cavalli e ai pennacchi dei caramba d'antan gli spalti erano gremiti. Suonava la carica e sul prato mordevano gli zoccoli. Una rivoltella esplodeva un colpo. Drôle de guerre. E lo stupore si disarticolava nel sorriso, davanti alla nuvoletta di uno sparo che tutto incuteva. Tranne paura. Quella che invece paralizzava il respiro a vedere gli equini stramazzare a terra. Per poi rialzarsi tra gli applausi del sollievo. Attori da oscar a quattro zampe. I bambini degli anni Settanta ridevano. Si divertivano così. All'Arena. Dove si fece la storia dello sport.

Nel 1910, il 15 maggio era domenica. Ma non fu una come tante. Il pallone aveva dodici anni di vita e quel giorno doveva decidere chi vincesse fra Italia e Francia. La nazionale esordì così. Con il primo indumento che trovò. Il più semplice. Maglietta e pantaloncini bianchi. Il colore dei Savoia. L'azzurro arrivò l'anno dopo e quella tenuta resta tuttora la seconda divisa della nazionale. Degli undici che giocarono, sei erano nati in città e uno di loro - Virgilio Fossati - non avrebbe avuto in dono dal destino di raccontare ai nipotini che il loro nonno aveva tenuto a battesimo l'Italia e in quella partita avrebbe pure fatto un gol. Uno dei sei con cui quei ragazzi sconfissero i rivali. L'unico con la maglia del suo Paese. Fossati aveva 19 anni e faceva il difensore dell'Inter. Ne divenne il capitano. Tempra da fuoriclasse. E il capitano lo fece anche nell'esercito, dove arrivò da sottotenente. A Monfalcone cadde da eroe, mentre cercava un varco tra i reticolati austro-ungarici e esortava i suoi soldatini all'azione. Ricevette una medaglia d'argento al valor militare, ma di lui non giunse eco. All'Arena.

Uno stadio dai rintocchi sinistri. Lo sport vi abitò a lungo, ma non scoccò mai l'amore fra quell'anfiteatro stile impero e le discipline fisiche. L'atletica vi stabilì una serie di primati. Ma non ebbe fortuna. Sparì anche la Notturna che era diventata un'istituzione. Il rugby vide la parabola di crisi dell'Amatori. Nel 2011, l'addio. Il 15 giugno 1930, penultima di campionato, l'Inter giocava con il Genoa. Una tribuna crollò all'improvviso. Un centinaio finirono all'ospedale, ma non morì nessuno. I nerazzurri vi lessero segnali infausti e decisero di giocarsi lo scudetto nella tana di via Goldoni, un campetto poco più che amatoriale. Fu il Milan a dare conforto. Cedette San Siro ai cugini, che sconfissero la Juve. E fu il terzo scudetto.

Ad allenare i milanesi era Arpad Weisz, un ebreo ungherese. Mediocre in campo, fuoriclasse in panchina. E trasformava le squadre in campioni. Costretto a fuggire le leggi razziali nel '38 si rifugiò in Francia, poi in Olanda. Ma i tedeschi si presentarono anche lì. Lo deportarono con la famiglia e nessuno sopravvisse ad Auschwitz. La guerra tinse di nero l'impianto napoleonico. Nel '44 i nazisti chiusero le porte durante Inter-Juve. Rastrellarono trecento tifosi. E li trasferirono nei lager. La loro eco non giunse mai in via Byron. Dove resta l'Arena. Simulacro del nulla. Di se stessa.

E delle sue ombre.

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