Cronaca locale

Moda, design e videogiochi le icone della "città da bere"

Alle Stelline una mostra racconta il decennio "reality" tra opere d'arte, oggetti "cult" e manufatti grafici

Moda, design e videogiochi le icone della "città da bere"

Cosa resterà di questi anni 80, cantava Raf? L'interrogativo rimane, di fronte alle icone indelebili dell'epoca che incarnò il passaggio alla post-modernità o, per usare il termine coniato dal sociologo Bauman, alla «modernità liquida». Quella cioè di un edonismo che proprio in quel decennio decise di rottamare le ideologie, la politica e anche il senso dello Stato, in nome di un'«estetica del consumo». E di quell'estetica, in Italia almeno, Milano fu la capitale che innalzò i vessilli del post-capitalismo, sostituendo i manifesti e la pubblicistica della piazza settantasettina con le pubblicità delle griffe di moda, i videogiochi e i supereroi. Una mostra che inaugura giovedì alle Stelline a cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzi prova ancora una volta a cristallizzare gli anni della «Milano da bere» con un inedito percorso narrativo che prende spunto proprio dai suoi simboli, quasi un puzzle di immagini tra cultura pop e spettacolo, arti e design.

Malgrado il titolo Reality 80 che occhieggia alle degenerazioni contemporanee di quella società ben fotografate da una pellicola di Matteo Garrone, l'intento dell'esposizione alla Galleria del Credito Valtellinese non vuol essere nè satirico nè giudicante, quanto piuttosto «bibliografico»; come a dire che non tutto ciò che navigava nel meltin' pot della Milano da bere era necessariamente figlio della frivolezza o di un disimpegno frutto della rimozione degli anni di piombo e del movimento studentesco. E infatti nelle sezioni della mostra convivono, quasi come facce della medesima medaglia, gli oggetti cult dei «paninari», i reperti tecnologici della Commodore e le opere di design di Alessandro Mendini e Ettore Sottsass, ancora oggi capisaldi della cultura progettuale made in Italy.

Un'esposizione di «manufatti», più che di contenuti, con uno sguardo quasi museologico verso un mondo giovanile che ha ormai aborrito i cortei e i pestaggi di colore politico contrapponendovi, nella peggiore delle ipotesi, le razzie di gruppo per i piumini della Moncler (ora tornati di moda), le scarpe Barlington o le borse della Naj Oleari. Ma la Milano degli abiti di Fiorucci, dei party e degli «effetti speciali» - come Umberto Eco definì il periodo di Tangentopoli - era la stessa fotografata con spietato documentarismo dall'occhio sagace di Maria Mulas; ed era la stessa che generò la fucina artistica dell'ex fabbrica Brown Boveri coordinata da Corrado Levi, l'intellettuale venuto da Torino e sostenitore della tesi che «Non esistono oggetti brutti, basta saperli esporre».

E infatti alle Stelline non mancano le opere degli artisti di quegli anni, ancora oggi non adeguatamente storicizzati forse proprio perchè figli di quell'epoca troppo licenziosa: come Stefano Arienti, Pierluigi Pusole, Marco Cingolani o Claudio Dèstito. E nel grande puzzle non mancano neppure le copertine di Domus e i nuovi alfabeti visivi del gruppo Alchimia che per la prima volta lanciò l'idea di un design indipendente e autoprodotto.

Altro che Milano da bere.

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