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Di quel "1992" ricordiamo tutto. Compresi i favori ai comunisti

Mani pulite non poteva che finire in fiction. Come mai i comunisti la scamparono? Perché erano onesti? Ma va' là

Di quel "1992" ricordiamo tutto. Compresi i favori ai comunisti

Mani pulite non poteva che finire in fiction. A forza di parlarne e scriverne, travisando la realtà allo scopo di trarre vantaggi politici, con il trascorrere dei decenni se n'è perso il significato. Gli autori televisivi di Sky hanno realizzato la serie utilizzando il «sentito dire», com'era ovvio che fosse, più attenti allo spettacolo che alla verità storica. Cosicché hanno confezionato un programma digestivo. Ma quello che accadde nel 1992 e negli anni successivi fu ben altro. Tanto per essere precisi, l'inizio dell'inchiesta fu casuale, opera di Antonio Di Pietro, magistrato non particolarmente stimato e amato dai colleghi. I quali, anzi, alle prime battute delle indagini, lo presero sotto gamba, pensando che egli agisse per assicurarsi un fascio di luce sulla ribalta.

Solamente in un secondo tempo la Procura di Milano si accorse che lo scandalo si sarebbe gonfiato, provocando un terremoto micidiale, e si accodò volentieri al Pm molisano, accettandone la leadership assegnatagli dai media. Per alcuni mesi, da marzo 1992 alla fine dell'estate, giornali e tv non amplificarono - per scetticismo - la performance di Di Pietro nella convinzione che si trattasse di un fuoco di paglia. Poi, invece, compresero che Tonino era una tigre e lo cavalcarono.

Fui il primo a intervistarlo (per intercessione di comuni conoscenti) e mi confidò che faticava a intensificare le investigazioni: sospettava di essere boicottato, addirittura, all'interno di quello che era chiamato il pool. Di Pietro era preoccupato e mi chiese di dargli una mano a demolire il muro di diffidenza che lo circondava. Il mio giornale, L'Indipendente , divenne così trombettiere di Mani pulite. Le notizie mi arrivarono copiose, e io le pubblicavo con grande evidenza, aumentando così le vendite in edicola, al punto che all'inizio dell'autunno di quell'anno il quotidiano da me diretto - dato per morto - passò da 20mila copie (di febbraio) a oltre 55mila. Qualche scemo ancora oggi mi chiede perché fui tanto cinico da diventare un bieco giustizialista. Se guidi una testata destinata al cimitero e scopri la terapia per tenerla in vita e rilanciarla, la applichi al meglio. Non ero e non sono un missionario: dovevo salvare l'azienda e i posti di lavoro, e li salvai grazie alle «prodezze» di Tonino, frattanto promosso dal popolo eroe della giustizia.

Avrò sbagliato a enfatizzare certe operazioni (arresti con larga profusione di manette), ma non fallii il bersaglio: la classe politica fu colpita al cuore e stesa. Lo stesso dicasi di Di Pietro: commise vari errori, tra cui quello di esagerare nell'uso della galera finalizzato a far cantare gli indagati, senza contare l'eccesso di sicurezza in se medesimo, una spavalderia ai limiti dell'arroganza. Ma, al di là di ciò, la materia per proseguire nell'inchiesta con effetti speciali era abbondante. I partiti rubavano indecentemente e gli imprenditori avevano la loro bella convenienza a sganciare mazzette.

Il sistema era vizioso e sembrava immodificabile, quando invece si poteva e si doveva aggiustare. A chi toccava emendarsi? Alla maggioranza di governo che, in quanto tale, avrebbe avuto la facoltà di legiferare per rendere legittimo il finanziamento della politica. Evidentemente, se il meccanismo illecito non venne eliminato, una ragione ci sarà. Questa: ai ladri faceva comodo incassare sottobanco non solo per fornire liquidi ai partiti, ma anche per distrarne in quantità per se stessi. Altrimenti non si giustificherebbe il fatto che molti onorevoli e senatori vivessero al di sopra del loro censo, per esempio abitando in ville sull'Appia antica (a Roma) la cui pigione mensile superava l'indennità parlamentare. Dove andavano a raccattare i soldi costoro se non nelle tasche degli italiani?

D'altronde, se il finanziamento alle segreterie fosse avvenuto alla luce del sole, sarebbe stato obbligatorio trascrivere gli introiti nei bilanci, e questo avrebbe impedito ai furfanti di trattenere una parte del bottino e spenderlo personalmente. Il concetto non mi sembra difficile da afferrare.

Il volume delle tangenti era spaventoso. Dovunque cadesse l'occhio di Di Pietro, si manifestavano cifre ingenti che piovevano nel portafoglio di gente insospettabile. Pertanto è ridicolo pensare che Mani pulite sia stato un castello in aria fondato sul nulla. Altro che nulla: montagne di denaro.

Tonino fu beatificato, era l'uomo più famoso d'Italia, più ammirato. E la classe politica giudicata quale associazione per delinquere, tant'è che il pentapartito fu sgominato: la Dc, il Psi, il Pli, il Psdi e il Pri inghiottiti dalla melma. Rimasero in piedi il Pci (poi Pds), la Lega e il Msi. Il primo era l'unico attrezzato per vincere le imminenti elezioni, gli altri due, benché cresciuti di qualche punto, erano nani se paragonati al gigante rosso, uscito indenne dall'ondata giudiziaria.

Come mai i comunisti la scamparono? Perché erano onesti? Ma va' là. Proprio loro che si erano alimentati lustri e lustri con i rubli (tramutati in dollari, s'intende) di Mosca. Si dà il caso che sul declinare degli anni Ottanta fosse intervenuta un'elegante amnistia (votata entusiasticamente all'unanimità), equivalente a una pietra tombale sul reato. Inoltre, Mani pulite, così feroce con democristiani e socialisti, fu mansueta - diciamo non accanita - con gli ex amici dell'ex Urss, i quali anziché in galera si prepararono per andare al governo. Non osiamo affermare che le toghe rosse favorirono i compagni. Segnaliamo tuttavia che Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio furono eletti in Parlamento coi voti della sinistra. Ma questo è un dettaglio che lasciamo valutare ai lettori.

Veniamo piuttosto a Silvio Berlusconi. Non è assolutamente vero che costui - contrariamente a quanto scritto ieri da Beppe Severgnini sul Corriere della Sera - fondò Forza Italia per sentirsi meno solo dopo l'abbattimento di Bettino Craxi. Il Cavaliere si inventò e costruì un partito in tre mesi per fronteggiare la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto, che si apprestava a stravincere le elezioni in programma per la primavera 1994. Senza il contrasto formidabile del patron di Fininvest, il Pds, che allora sfoggiava nel simbolo una quercia, si sarebbe impadronito di Palazzo Chigi e di tutto il resto. Ecco perché Berlusconi si è ricoperto di una patina di odio: la sua colpa è quella di aver tardato di quasi vent'anni la conquista del potere da parte dei trasformisti comunisti.

Quello che è accaduto dopo è notorio, l'abbiamo vissuto. Qualcuno sostiene che Tangentopoli ha fatto un gran casino, ma non ha cambiato nulla. C'è del vero. Essendo sfuggito al repulisti, il vecchio Pci, pur sotto mentite spoglie, è rimasto quale incrostazione indistruggibile e ha impedito, morta la Prima Repubblica, lo sviluppo della seconda che in pratica è abortita. Ne paghiamo le conseguenze.

A rottamare i compagni d'antico pelo ha provveduto Matteo Renzi con un colpo di ramazza. Se questo non è un cambiamento... Chi ha ferito il Cavaliere, adesso sanguina a sua volta ed è obbligato a cedere spazio alla generazione verde, che del rosso non sa che farsene. Indubbiamente, l'Italia non è progredita avendo perso anni a combattere con ogni arma Berlusconi, e Berlusconi ne ha persi altrettanto per difendersi, debilitandosi.

Ma questa è un'altra storia che la fiction ha preferito trascurare, come ha trascurato altre cose troppo importanti per essere tradotte in povere immagini televisive.

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