Politica

Falluja, l'avanzata contro l'Isis minaccia la riconciliazione

L'esercito iracheno in città con l'aiuto delle milizie sciite e dei pasdaran iraniani. Il rischio di vendette settarie contro i sunniti

Gian Micalessin

Se c'è una battaglia con lo Stato Islamico che Washington non vorrebbe vincere quella è la battaglia di Falluja. Ma lo scontro è già iniziato e gli Stati Uniti si ritrovano da ieri nella spiacevole condizione di appoggiare, volenti o nolenti, non solo gli iracheni, non solo le milizie sciite, ma anche i «nemici» iraniani. E di ritrovarsi coinvolti in un'offensiva che rischia di allargare il fossato tra la minoranza sunnita e quelle curde e sciite contribuendo ad ampliare la frammentazione dell'Iraq e a regalare ulteriori consensi al Califfato.

Falluja è, da sempre, la città maledetta per gli americani. L'eccidio di quattro mercenari della «Blackwater» bloccati, massacrati e appesi alle navate di uno dei ponti sul Tigri è la scintilla che innesca, nel 2004, la rivolta delle tribù sunnite e da il là alle attività di quella cellula irachena di Al Qaida trasformatasi, successivamente, nello Stato Islamico. Alla fine del 2013 la caduta di Falluja nelle mani dell'Isis segna, invece, l'inizio dell'avanzata verso Mosul dei miliziani di Al Baghdadi. Un'avanzata favorita dal malcontento di una minoranza sunnita dimenticata dagli americani ed emarginata e criminalizzata dal governo sciita e filo-iraniano dell'allora premier iracheno Nuri Al Maliki. Oggi la situazione non è cambiata di molto. L'attacco a Falluja, scattato ieri mattina, è guidato dai pasdaran iraniani con in testa quel generale Qasem Suleimani responsabile, in qualità di comandante della brigata Al Quds, di tutte le attività in territorio straniero.

Ma a far paura a Washington non è tanto Qusem Suleimani - uno stratega assai temuto, ma con cui gli americani sanno anche di poter trattare. Quel che più fa paura sono le incontrollabili milizie sciite decise a massacrare non solo gli ultimi cinquecento, mille combattenti dello Stato Islamico trincerati a Falluja, ma anche i circa 50mila civili sunniti rimasti nella città e ridotti al ruolo di scudi umani. Per capirlo basta guardare il video in cui Aws al-Khafaji, comandante della milizia Abu Fadhil al Abbas, una delle più violente e radicali fra quelle impegnate nell'assalto, invita a non aver pietà per nessuno. «Falluja è una roccaforte del terrorismo, a Falluja - afferma al Khafaj - dentro non ci sono né patrioti, né persone veramente religiose. Abbiamo la possibilità di ripulire l'Iraq sradicando il cancro di Falluja». Lui e i suoi uomini sembrano pronti, insomma, ad usare metodi non troppo differenti da quelli dello Stato Islamico, massacrando non solo i combattenti, ma anche i civili e le loro famiglie. E a buttar benzina sul fuoco dell'odio settario ci pensa lo Stato Islamico. Ieri mattina proprio mentre le forze speciali irachene e le milizie coordinate dai pasdaran iraniani iniziavano l'assalto alla città tre attentatori suicidi si facevano saltare a Bagdad e dintorni uccidendo una ventina di sciiti.

Il problema degli americani in questo non facile frangente è quello di dover scegliere tra la padella e la brace. La padella è l'inferno di Falluja. Un inferno che - nonostante la presenza in Iraq di oltre 5500 soldati americani - Washington, Pentagono e Cia sono ben lontani dal controllare, ma da cui non possono neppure saltar fuori. Bloccando la partecipazione delle proprie forze speciali e rinunciando a fornire appoggio aereo gli Stati Uniti regalerebbero di fatto l'iniziativa agli iraniani vanificando quel poco d'influenza che riescono ancora ad esercitare sul premier iracheno Haider al Abadi e sul suo debole esecutivo. E visto l'avvicinamento di Mosca a Bagdad rischierebbero, anche qui, di ritrovarsi sopravanzati da Vladimir Putin. Ma la padella di Falluja non è meno pericolosa. Una caduta della città coronata da una sequela di orrori di stampo sciita rischia di cementare il consenso di cui gode lo Stato Islamico tra molte tribù sunnite.

E rendere più ardua la riconquista di Mosul e del nord dell'Iraq.

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