Cronache

Mohamed, italiano dell'Isis: "Pronto a consegnarmi"

Koraichi è partito da Lecco 4 anni fa per la jihad Ha la nostra cittadinanza. È accusato di terrorismo

Mohamed, italiano dell'Isis: "Pronto a consegnarmi"

«Sono venuto in Siria perché c'era la Sharia (la legge del Corano, ndr). Volevo vivere con la mia famiglia nel vero Islam, ma adesso sono prigioniero e ferito. Spero di tornare in Italia», sussurra a bassa voce Mohamed Koraichi, classe 1985, che dalla provincia di Lecco ha raggiunto lo Stato islamico quattro anni fa. Cittadino italiano dal 2013, di origine marocchina, è uno dei volontari della guerra santa super-ricercato per terrorismo internazionale.

Barzan Jabar, la mia guida locale nelle battaglie per liberare le roccaforti del Califfato, l'ha scovato pochi giorni fa in una prigione dei curdi nella zona di Al Hassaka, nel Nord Est della Siria, dove sono detenuti circa mille combattenti dell'Isis, soprattutto stranieri. «Mi chiamo Mohamed Koraichi e sono venuto in Siria per aiutare la popolazione», sono le prime parole del latitante, che suonano false. Maglietta grigia con uno strano cappello di lana in testa e avvolto in una coperta sembra provato dalla prigionia. Accanto a lui c'è un ragazzino con la testa fasciata e lo sguardo perso nel vuoto. L'ala della prigione di massima sicurezza dovrebbe essere un'infermeria, dove sono buttati a terra o su pochi letti circa 200 combattenti dell'Isis rimasti feriti nei combattimenti. Un ufficiale della sicurezza curda indica il terrorista italiano in mezzo a miliziani stranieri delle bandiere nere denutriti e sconfitti. Nel Califfato «arrivava gente da tutto il mondo. All'inizio si stava bene - ricorda il foreign fighter -. Poi è intervenuta l'aviazione, che bombardava dappertutto, di continuo». Il terrorista non ammette di avere imbracciato le armi, ma l'inchiesta che lo riguarda portata avanti dai carabinieri del Ros di Milano ha raccolto numerose prove. Negli atti vengono citati «riscontri» sull'«addestramento militare» di Koraichi, che ha partecipato «quale mujahed alle azioni violente decise dall'organizzazione terroristica». E sarebbe stato riconosciuto in alcuni filmati del Califfato mentre partecipava all'attacco di un aeroporto dove sono stati uccisi 250 soldati siriani, molti sgozzati.

«Come tutte le guerre ci sono stati degli errori compiuti anche dallo Stato islamico», ammette il jihadista partito con la famiglia da Bulciago, in provincia di Lecco. Dopo i tempi d'oro a Raqqa «ci spostavamo da un posto all'altro e siamo finiti circondati a Baghuz», spiega il super-ricercato. L'ultima sacca dello Stato islamico nel Nord Est della Siria, dove i resti delle truppe jihadiste hanno combattuto fino alla morte fra febbraio e marzo. «Sono stato ferito - racconta Koraichi -. Quando hanno aperto un corridoio umanitario mi sono consegnato assieme alla famiglia».

Adesso deve indossare la tuta arancione dei prigionieri jihadisti resa famosa da Guantanamo. «La situazione è critica - spiega il detenuto -. Da mesi non sappiamo quale sarà la nostra sorte. Nessuno ci ha processato. Il futuro è buio». Sembra un agnellino, ma dalla Siria mandava le immagini di quando addestrava i figli piccoli a sparare con il kalashnikov. Una serie di inchieste hanno rivelato che era il mentore del «pugile dell'Isis», l'operaio Abderrahim Moutaharrik, che abitava a Lecco. Il kick boxer delle bandiere nere sta scontando nel carcere di Sassari una condanna a 6 anni per terrorismo internazionale. E il presidente Sergio Mattarella gli ha tolto la cittadinanza italiana. Il trait d'union con Moutaharrik era Wafa Koraichi, la sorella del terrorista rispuntato in Siria, pure lei arrestata, condannata ed espulsa questa estate. Koraichi, dopo il crollo dell'Isis, era stato dato per disperso o morto. E invece è dietro le sbarre dei curdi. La situazione, però, rimane molto incerta dopo l'invasione dei turchi. Le cellule dell'Isis hanno fatto esplodere un'autobomba davanti al carcere del jihadista partito da Lecco nel tentativo di liberare i prigionieri. Koraichi era arrivato in Italia nel 2003 con un regolare permesso di lavoro. Adesso si sente con l'acqua alla gola: «Mi appello all'Italia.

Sono in prigione da nove mesi pronto a consegnarmi».

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