Nel primo conflitto mondiale, che è stato a giusto titolo definito l'«apocalisse nella modernità», la nostra classe dirigente non entrò, come si è spesso ripetuto, affetta da uno stato d'incosciente «sonnambulismo». Fa ora giustizia di questa leggenda storiografica l'importante volume di Giuseppe Astuto, La decisione di guerra. Dalla Triplice Alleanza al Patto di Londra, appena uscito nella prestigiosa collana di «Studi Internazionali», fondata dal compianto Luigi Vittorio Ferraris (Rubbettino, pagg. 577, euro 25).
Salandra, Sonnino, Cadorna e gli altri esponenti della casta militare, come il generale Luigi Capello, avevamo, infatti, ben presente lo stato d'impreparazione morale e materiale del Paese (sul piano finanziario, industriale, della produzione e dell'approvvigionamento di materie prime e di armamenti). Una situazione critica, questa, aggravata dall'infelice situazione strategica della Penisola sprovvista di un confine militare sicuro a nord-est e del tutto vulnerabile da un attacco via mare, considerata l'enorme estensione delle coste e soprattutto la porosità di quella adriatica settentrionale priva di difese naturali e pressoché sprovvista di efficienti basi navali.
E della consapevolezza delle difficoltà della guerra italiana, il più grande storico italiano della prima metà del Novecento, Gioacchino Volpe, volle dare testimonianza nell'articolo Radiose giornate di maggio (proposto al Corriere della Sera, nel marzo 1939, poi respinto dalla censura interna del quotidiano milanese) il cui paragrafo d'esordio si apriva ricordando le preoccupazioni del governo Salandra, per le deficienze strutturali dell'Italia, posta dopo il 28 luglio 1914, al bivio tra pace e guerra, «in un momento in cui il Paese era sotto la minaccia del conflitto civile, con le finanze in mediocre ordine, il Parlamento irrequieto ed esigente, e a rischio, se fossimo restati fedeli all'alleanza con gli Imperi centrali, di essere privati delle materie prime essenziali, il carbone, la lana, il grano, il petrolio e il cotone che ci venivano dall'Inghilterra o attraverso il mare dominato dall'Inghilterra».
L'impossibilità evidenziata da Volpe, di non poter affrontare uno scontro con le «Potenze marittime», era stata sostenuta con forza nella lettera del 1° agosto 1914, inviata dal Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon de Revel, a Salandra, dove la scelta di non impegnarsi contro l'Intesa era motivata, più che da ragioni ideali o di affinità politica verso Londra e Parigi, da un calcolo necessariamente e brutalmente legato alla posizione geopolitica del nostro Paese. Thaon de Revel, infatti, non nascondeva al capo del governo che «in un conflitto armato marittimo, contro Francia e Inghilterra, nel quale certamente la Regia Marina farebbe tutto e intero il proprio dovere, la lotta che si prospetta non darebbe alcun affidamento di poter sicuramente conquistare quel dominio del mare necessario alla protezione del litorale nazionale contro le offese del nemico».
Eppure, nonostante le tante debolezze della Nazione italiana, quella guerra era apparsa, a Volpe, già il 4 ottobre 1914, «necessaria», sia che fosse dichiarata all'Austria-Ungheria o all'Intesa. Restare neutrali nella grande contesa europea avrebbe corrisposto alla scomparsa politica del nostro Paese dallo scacchiere internazionale, alla fine della speranza di ricostituire la sua integrità territoriale e al sorgere di una più grave minaccia sul confine orientale. Se, infatti, «la vittoria del blocco austro-tedesco, cioè del germanesimo, sarebbe la fine del Trentino italiano e il nostro schiacciamento politico, militare, economico nell'Adriatico», il successo di Francia e Inghilterra, con le loro simpatie per i partigiani di una «Grande Serbia» e del nazionalismo iugoslavo, avrebbe corrisposto «all'annichilimento etnico dell'elemento italiano in Dalmazia, Fiume, in Istria e, probabilmente, all'affacciarsi dello slavismo in casa nostra, tra quei 40 o 50mila slavi del Friuli italiano».
La guerra italiana sarebbe stata, comunque, una «guerra su due fronti»: contro l'Austria e l'espansionismo teutonico da combattere sul campo, e contro «gli alleati nostri ma di noi non amici» da condurre, senza quartiere, con gli strumenti della diplomazia, per «ottenere il riconoscimento concreto della nostra esistenza e del nostro diritto di svilupparci». Era indispensabile, dunque, prevalere in entrambi i fronti, pena il rischio di «perdere anche vincendo», sosteneva Volpe, anticipando le apprensioni di Sonnino esposte, il 16 febbraio 1915, al nostro ambasciatore a Londra, perché questi le rappresentasse al governo britannico.
Il nostro ministro degli Esteri insisteva sul fatto che «nel partecipare alla guerra ci troveremo a fianco alcuni compagni d'arme, certo stimabilissimi ma che hanno, per qualche riguardo, interessi e ideali politici diversi e in parte perfino opposti ai nostri». Da qui derivava l'assoluta necessità di garantirci che, dopo la vittoria, «le nostre speranze non abbiano a restare frustrate per effetto della pressione che avessero a esercitar a nostro danno quegli stessi compagni al cui fianco avremmo combattuto, e ciò specialmente per quanto riguarda l'appagamento di alcune nostre antiche aspirazioni nazionali e le indispensabili garanzie della nostra situazione militare nell'Adriatico».
Erano timori sensatissimi che si sarebbero tramutati in esatta profezia, quando al termine della Conferenza di pace di Parigi, i nostri alleati ci avrebbero defraudato del compenso della vittoria, acquistata al prezzo di oltre di 650mila caduti e di uno sforzo economico di straordinarie proporzioni che richiese non solo l'impegno di tutte le risorse del Paese, ma anche il sacrificio di una gran parte della ricchezza nazionale, accumulata da decenni.
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