L'idea di intestare una via genovese al «30 giugno 1960», giornata della «rivolta» contro il congresso nazionale del Msi, non può non preoccupare chi abbia una visione non formale della legalità.
Al di là delle valutazioni strettamente storiche e politiche, le «carte» e soprattutto le sentenze parlano chiaro.
Il Pci, che si vuole defilato, rispetto all'impegno più diretto dell'Anpi e della Cgil, ebbe un ruolo essenziale nella regia delle manifestazioni - come testimonia un ex dirigente comunista, Luciano Barca (Cronache dall'interno del vertice del Pci, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2005).
Fonti «fiduciarie» parlano di gruppi di ex partigiani fatti affluire dalle province di Alessandria, Savona, Imperia, La Spezia, Parma, Cuneo, Torino, Milano, «per poter fronteggiare le forze di polizia».
I rapporti dei Carabinieri segnalano squadre di 5-10 uomini, ciascuna con un capo e perfettamente coordinate, in grado di rifornirsi di sassi, bottiglie molotov, spranghe e dotate anche di un servizio medico organizzato per evitare che i manifestanti andassero in ospedale e venissero identificati (cfr. Luciano Garibaldi, Due verità per una rivolta, «Storia illustrata», n. 337, dicembre 1985).
Nel Rapporto della Prefettura di Genova al ministro dell'Interno, «riservatissima personale» del 3 luglio 1960 (citato da Adalberto Baldoni, La Destra in Italia - 1945-1969, Editoriale Pantheon, Roma 1999), il Prefetto Pianese scrive sui manifestanti del 30 giugno: «La loro tattica è quella di venire a contatto diretto e a scontri frontali con le forze di polizia (...). Da lontano, da appostamenti, da cornicioni, le assalgono con grosse pietre, mattoni, bottiglie, spranghe di ferro, etc. cercando di frazionarle, facendosi inseguire, per poi assalire isolatamente piccoli reparti e mezzi in difficoltà, o attirandoli in luoghi predisposti per l'imboscata».
Ugualmente significativo l'articolo, pubblicato, il giorno seguente gli scontri, da «Il Secolo XIX» («Ore di tumulti e di sanguinosi tafferugli nel centro di Genova durante lo sciopero di protesta contro il congresso del MSI»), che, avendo la propria sede in piazza De Ferrari, luogo degli scontri, può utilizzare un osservatorio privilegiato. Nella dettagliata cronaca del quotidiano genovese si parla del linciaggio a cui sono sottoposti gli agenti di polizia, del capitano Francesco Londei, quasi affogato nella vasca e poi abbandonato svenuto a terra, del poliziotto Emanuele Rimaudo che ha mandibola sfondata dal colpo di una trave, delle camionette date alle fiamme, dei ganci da portuale usati come armi («un agente ha avuto la bocca letteralmente strappata da quell'arma, un altro ha riportato un foro in un braccio»). Il bilancio degli scontri (iniziati dopo le 15 e protrattisi fino alle 20) è gravissimo, con novanta poliziotti feriti, centoventotto contusi, diciotto automezzi distrutti o danneggiati.
Il processo per i fatti di Genova, che si conclude il 19 luglio 1962, porta alla condanna di 43 imputati, per resistenza, oltraggio e danneggiamenti. L'obiettivo è stato comunque raggiunto.
Il senso delle vicende genovesi, al di là di ogni interpretazione «mitica» (sulla città in piazza per la libertà e la democrazia) sta nelle «Note di propaganda», il quindicinale della sezione centrale e propaganda del Pci (n. 7, 4 luglio 1960), diffuso a ridosso del 30 giugno genovese: «l'ondata combattiva e larghissimamente unitaria di antifascismo che contro il congresso del Msi ha animato la lotta di Genova, con la partecipazione e la solidarietà di altre città, deve accentrarsi nel contenuto della nostra propaganda, insieme alle questioni su cui si sviluppano le lotte del lavoro e insieme alla lotta per la distensione contro le basi straniere, l'attacco vigoroso per abbattere subito il governo Tambroni». Da qui l'invito a «fare leva sulle tradizioni locali della Resistenza» e contro «il connubio tra la Dc e la sopravvivenza fascista».
La prospettiva vera? «In questo modo l'attacco antifascista diventa anche un terreno su cui ricercare e sviluppare le convergenze e le intese tra le forze di sinistra e democratiche per l'affermazione di nuove maggioranze nei comuni e nelle province nelle prossime elezioni amministrative».
In questo, in fondo, c'è il senso reale dei fatti di Genova del giugno 1960 e delle vicende politiche italiane, dal 1960 in poi: un'operazione bassamente strumentale, a cui dedicare, oggi, una via cittadina appare francamente fuori misura.
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