L’on. Borghezio potrà - come ha annunciato - ubriacarsi per la gioia con una pinta di Guinness, l’on. Calderoli inneggiare alla saggezza del popolo ed eurofobi vari organizzare festeggiamenti, ma il «no» degli elettori irlandesi al Trattato di Lisbona non è una bella notizia: meno dell’1% della popolazione dell’Unione ha affossato quello che il restante 99%, sia pure attraverso la mediazione dei rispettivi governi e Parlamenti, aveva già ratificato o era pronto a ratificare. L’on. Fini esagera forse un po’ quando parla di «crisi senza precedenti delle istituzioni europee»: ce ne sono state, in passato, di anche peggiori, sempre superate con qualche escamotage. Ma che, con questo voto, la Ue subisca una brutale battuta d’arresto nel suo cammino verso una maggiore autorevolezza e soprattutto una maggiore efficienza è fuori di dubbio. Se anche a molti l’Europa non piace, c’è: e dal momento che c’è, è interesse di tutti coloro che ci vivono che funzioni al meglio.
In seguito al passaggio da 15 a 27 membri, l’Unione ha un bisogno disperato di adeguare le sue istituzioni alla nuova realtà: ci ha provato una prima volta con il forse troppo pretenzioso progetto di Costituzione, bocciato nel 2005 da francesi e olandesi. Ci ha riprovato adesso con una versione «alleggerita», e neppure questa è andata in porto. Un «piano C», che rimetta tutto in discussione, è almeno per il momento da escludere, e comunque ci vorrebbero altri anni. Perciò, se non si riuscirà a convincere gli irlandesi a tornare alle urne in autunno su una versione del Trattato contenente alcuni opt out capaci di soddisfare i loro dubbi, si tornerà, come un perverso gioco dell’oca, alla casella zero, cioè al vecchio Trattato di Nizza e ai suoi ben noti difetti: con tanti saluti anche alla possibilità di varare politiche comuni europee su materie che pure lo esigono, come l’immigrazione e l’energia.
Posso essere d’accordo con gli euroscettici che il Trattato di Lisbona, frutto di lunghi e defatiganti negoziati, non è l’ideale, ma era il massimo che si potesse ottenere in questo momento storico. Senza creare il Superstato centralista che tutti temono, doterebbe finalmente la Ue di una sua personalità giuridica, di un presidente del Consiglio eletto per due anni e mezzo, di un ministro degli esteri e di una Commissione più agile che riflettesse la maggioranza prevalente nel Parlamento di Strasburgo. Soprattutto, renderebbe più agili i meccanismi decisionali, introducendo il voto a maggioranza per nuove materie e ricalibrando il peso dei Paesi membri in Consiglio.
Più che mai, ora varrà il detto che la Ue è un gigante economico e un nano politico: con la speranza, ma non la certezza, di mantenere almeno la prima caratteristica.
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