Accordo sul fondo salva-Stati, ma vince Berlino

I desiderata di Angela Merkel, espressi con i poco diplomatici toni teutonici, sono stati esauditi: e così, ieri, i capi di Stato e di governo dell’Unione europea (per l’Italia era presente il premier, Silvio Berlusconi) hanno confezionato a Bruxelles l’accordo sulle modifiche al Trattato di Lisbona per consentire la creazione del fondo salva-Stati permanente. Più che quella coralità d’azione invocata dal presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, il summit ha dato prova ulteriore di quanto il peso della Germania sia oggi in grado di spostare le decisioni da cui dipendono i destini dell’Europa intera. Alla vigilia del vertice, Berlino aveva posto come pre-condizione per una convergenza la messa nero su bianco che il nuovo meccanismo di emergenza, che sostituirà l’attuale strumento anti-crisi (l’Efsf) dal 2014, sarebbe stato utilizzato solo come «ultima ratio». Ed è proprio questa la formula che, secondo alcune fonti, comparirà nel comunicato finale, in sostituzione del testo - già predisposto nei giorni scorsi - in cui si parlava di assistenza finanziaria concessa sotto «una rigida condizionalità». Non è solo questione di sfumatura lessicali, ma di sostanza. Se il fondo è uno strumento da ultima spiaggia, il rischio è quello di un’attivazione tardiva del paracadute, con possibili ricadute sui costi del salvataggio. Inoltre, non sono da escludere dispute legali sulla definizione di «risorsa finale» e dunque di ricorsi per violazione del Trattato in caso di dubbio.
Non solo. L’accordo introduce anche un altro punto “sponsorizzato” da Berlino che era stato oggetto di discussioni: le decisioni sugli aiuti saranno prese all’unanimità, e non a maggioranza come avrebbero preferito altri. In questo modo, sarà sufficiente il «no» di un solo Paese per bloccare l’attivazione del fondo. Secondo alcuni esperti, sarebbe stato preferibile permettere ai Paesi contrari di non partecipare finanziariamente all’operazione di salvataggio.
Il comunicato finale dovrebbe essere accompagnato da una dichiarazione in 7 punti, in cui i leader europei «si impegneranno tutti a ridurre il deficit sotto il 3% del Pil al più tardi entro il 2013» e a condurre «nuovi stress test sulle banche». Inoltre, «esprimono pieno sostegno all’azione della Banca centrale europea», che ieri ha rafforzato le mura costruite a difesa dell’euro, raddoppiando il proprio capitale a 10,76 miliardi di euro. La mossa riflette - spiega la Bce in una nota - la maggior «volatilità dei tassi di cambio, dei tassi d’interesse e dei prezzi dell’oro», oltre a un sistema finanziario «cresciuto considerevolmente» rispetto agli inizi dell’euro che sta per compiere 12 anni. Ma è la stessa Bce a citare un «aumentato rischio di credito» che impone di rafforzare le riserve, che vanno di pari passo con l’aumento del capitale, per disporre così di maggiori munizioni e difendere la divisa unica dagli attacchi della speculazione. La crisi del debito europeo, d’altra parte, non dà tregua, come dimostra l’intenzione di Moody’s di mettere sotto osservazione con implicazioni negative il rating della Grecia e con la Spagna costretta ad offrire rendimenti più alti per piazzare circa 2,5 miliardi di titoli a 10 e 15.
L’intesa siglata a Bruxelles introduce comunque modifiche leggere al Trattato. Le questioni più spinose rimangono dunque irrisolte.

A cominciare dalla questione se raddoppiare o meno le risorse del fondo salva-Stati rispetto ai 440 miliardi in dotazione all’Efsf (Germania contraria) e dall’idea di Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker di lanciare eurobond, fortemente avversata dai tedeschi, poco gradita dal Fondo monetario internazionale, ma che piace all’Europarlamento.

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