Addio a Cobelli Mise in scena Aristofane e la Yourcenar

Se n’è andato ieri alle prime ore del mattino con l’abituale discrezione che gli era propria, Giancarlo Cobelli, uno dei maestri della regia teatrale del dopoguerra. Da tempo malato, ma ancora lucidissimo, si è spento vittima di una crisi cardiaca sull’ambulanza che lo portava in ospedale. Aveva ottantadue anni e, nativo di Milano la patria insieme odiata e amata negli anni giovanili, si era fatto le ossa prima come attore di squisita eleganza e mimo d’impareggiabile levità e sarcastico humour alla scuola di Strehler. Per il quale ricreò, nell’Histoire du soldat di Strawinsky nel lontano 1957, l’immortale figura del piccolo uomo sopraffatto dagli orrori della guerra. Per brillare, nei primi anni sessanta, come protagonista elusivo e bizzoso «come un pallone gonfiato da Decroux» (era solito dire) nei cabaret a mezza via tra graffi provocanti ed eleganza culturale scritti per lui da Arbasino e Flaiano.
Per emergere subito dopo da regista dal ’69 in poi con le mirabili regie del Woyzeck di Buchner (da cui trasse un film tv premiato in mezzo mondo) e degli Uccelli di Aristofane. Cui fecero seguito, nel felice periodo in cui fu regista stabile all’Aquila la triade che lo rese famoso in ambito europeo con le creazioni della Pazza di Chaillot, la dannunziana Figlia di Iorio e quel memorabile Antonio e Cleopatra che rivelò al pubblico un’attrice come Piera Degli Esposti. Ma i suoi meriti non si fermano qui, data la sua estrosa vocazione alla riscoperta di capolavori trascurati dalla cultura italiana come, ad esempio, lo straordinario Avventuriero e la cantante di Hofmannsthal, la Turandot di Gozzi concepita come un mirabile penchant della Commedia dell’Arte rinvigorita da uno studio accanito della tradizione nipponica e quel Dialogo nella palude la cui autrice Marguerite Yourcenar gli commissionò per l’Italia dopo aver ammirato a Verona, una lontana estate, la regia di quel Racconto d’inverno una volta tanto sottratto al folklore esteriore di troppe compagnie di giro.


Ma come si fa, in un momento doloroso come questo, a dimenticare quel suo omaggio a John Osborne che culminò nella prima italiana, a vent’anni di distanza dalla performance londinese, della pièce maledetta per eccellenza del grande scrittore ovvero Un patriota per me sul caso del colonnello Redl dove affidò a Massimo Belli il ruolo che fu di Maximilian Schell? E a passare sotto silenzio il suo studio millimetrico su Goldoni di cui fu il solo, dopo la parentesi viscontiana, a imporre in tre diverse edizioni L’impresario delle Smirne oltre all’originale ripensamento della Locandiera in due eccezionali spettacoli ispirati alla vittoria del Terzo Stato?

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