Agli investitori giapponesi piace il «made in Italy»

nostro inviato a Tokio

Da tempo fa meno notizia della Cina. E ne soffre molto. Ma i grandi capitali, quelli pronti per andare all’estero e in Italia in particolare, sono qui, in Giappone: 45mila miliardi di dollari di asset investiti, di cui il 5,5% all’estero. Di questi, il 17-18% è in azioni: sono 400 milioni di dollari di cui 14-15 sono finiti in Italia. Paese a cui, rispetto al peso dell’indice globale Morgan Stanley (2%), i giapponesi attribuiscono un valore quasi doppio. E ora che l’economia del Sol Levante, dopo 18 anni di vacche magre, dà segnali di solida ripresa; ora che il nuovo premier Shinzo Abe ha annunciato di voler aumentare il Pil al ritmo del 3% l’anno; ora che le banche d’affari già inneggiano nei loro report all’«abeismo», si può scommettere che i capitali giapponesi possano tornare a farsi sentire oltre frontiera. L’Italia è in prima fila, tanto che la Borsa Italiana, insieme con Nomura, per il terzo anno consecutivo, ha portato a Tokyo 8 società quotate.

L’idea è intercettare tutto l’interesse possibile puntando sia sul brand, che qui tira moltissimo (Valentino, Tod’s, Campari), sia su un gruppo che i giapponesi hanno scoperto da poco e stanno corteggiando assai (Finmeccanica), sia su una banca che sta rilanciando se stessa e anche il suo essere made in Italy come Mps, sia su gruppi che forniscono stabile redditività, di fronte a investitori prevalentemente previdenziali (Enel, Snam Rg), sia su un caso di eccellenza ingegneristica come Socotherm. I risultati si vedranno. Ma chi, come Valentino o Tod’s, ha già da tempo molti rapporti con i broker di Tokyo conferma che ne vale la pena.

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