Aiuto, non levateci gli unici apparecchi anti-intercettazioni

PRIVACY Non ci resta che la cabina elettorale dove il cellulare va sempre lasciato fuori


Gli ultimi novanta centimetri quadrati di intimità. Dimessi, spariti. Con tutti gli annessi, cesso compreso. Che cosa è, era, fu la cabina del telefono? Il posto dei sogni e della paura, con filmografia abbondante sul tema, il sito vigliacco dei ricattatori e dei brigatisti, l’isola degli innamorati, la garitta a gettoni dei militari, la discarica degli screanzati. Ma soprattutto, prima di tutto, l’unica, esclusiva possibilità di non venire intercettati, di essere liberi di fare e di dire, senza cimici, registratori, spie nascoste. Ecco lo sciacallo, dirà qualche sepolcretto imbiancato. Ecco il delinquente delicato, sfacciato, dirà il duro e puro. No, trattasi di un semplice momento e pensiero di svago, di libertà libera, nei limiti e nel rispetto della legge e della buona educazione, di vera privacy, il termine più inflazionato al mondo, sbandierato un giorno sì e l’altro pure e, puntualmente, smentito ventiquattro ore sempre al giorno stesso.
La cabina come rifugio, la tana o la capanna dei giochi di infanzia. Finito, smantellato. Prima dell’invasione tecnologica non c’era scelta per chi avesse avuto necessità e voglia di una telefonata fuori casa: o il posto pubblico, all’interno di un bar fumoso e di un albergo con l’olezzo del minestrone, oppure quel parallelepipedo piazzato sul marciapiede, sotto l’albero, all’angolo della piazza. La commedia era uguale, quasi per tutti: una porta a soffietto per isolarsi dal resto del clamore, chiusura difficoltosa, raramente ermetica, quindi la ricerca del numero sull’elenco telefonico maltrattato, violentato, l’insulto ai santi tutti perché avevano strappato, non i santi ma qualche teppistello, proprio la pagina con il cognome, il nome e l’indirizzo dell’utente desiderato. A seguire altre sorprese sgradite, la cornetta senza il filo, tranciato dal teddy boy di cui sopra, schizzi osceni, frasi irriferibili scritte sui vetri, sul legno, sopra, sotto, di fianco, una latrina sponsorizzata dalla Sip, società idroelettrica piemontese, mi avevano spiegato senza spiegarsi. Finito l’incubo, riallacciato il filo, ricomposto l’attrezzo, trovato il gettone, formato il numero, il cielo tornava a essere blu. Ma sorgeva un nuovo problema: fuori, improvvisamente si era appalesata un’ombra, si muoveva nervosa, passeggiava avanti e indietro, prima sorridendo, poi incominciando a smadonnare. Alle sue spalle, un’altra figura e un’altra ancora, coda, fila, gente che aspetta, altri utenti dotati di gettone del valore di lire duecento, magari piove, forse tira un vento cattivo, mi incurvo nelle spalle, cerco di nascondermi ma sono facilmente visibile anche senza radar, sono un uomo solo alla cornetta, fingo di affrettare la conversazione e invece vado di bacetti, sussurri, coccole; fine della conversazione, il gettone ormai ha esaurito la sua funzione, riapro il soffietto, vedo le ombre che sbuffano, me la svigno in slalom rapido, avanti un altro, pure a lui capiterà di non trovare la pagina richiesta e di annusare gli effluvi del sito.
La libidine si realizzava all’estero, alla voce Inghilterra, Londra e dovunque: red phone box, cabina telefonica da cartolina illustrata, numero marchiato a fuoco, possibilità di farsi richiamare tra la sorpresa degli astanti turisti che sentivano il trillo, non scorgevano l’utente, pensavano al fantasma del castello ma noi apparivamo di colpo, noi cialtroni, chiudendoci la porta alle spalle e ghignando da dietro il vetro. L’unico vero, terribile guaio sull’isola della regina ma anche in Francia e in Svizzera, in Germania e in Lussemburgo, riguardava, in assenza del gettone italiano, la fase di avvio. La procedura prevedeva di comporre prima il numero e quindi di inserire la moneta nell’apposita fessura, non appena avuta la risposta. Qui l’impresa si faceva titanica, la moneta non entrava, il dito si arrossava, la voce dall’altra parte del filo diceva «pronto, pronto», la linea cadeva, inesorabilmente. Roba antica, gag datata e malinconica, il telefono cellulare ha cancellato l’incubo della fessura, il sacchetto dei gettoni, il portatile ha tolto di mezzo le ombre in coda e, insieme, il sapore dell’imprevisto, la cabina nella quale si spogliava Nembo Kid è soltanto un fumetto, oggi trionfano i call center, luoghi di ritrovo, alveari di voci e di nostalgie, quasi un passo indietro, ai tempi dei centralini pubblici della Stipel, qui prenotavi la chiamata, ti accomodavi seduto in attesa della comunicazione, la telefonista con cuffia avvisava: «cabina 3, Milano in linea», se qualcuno intercettava questo, di sicuro, era la signorina con la cuffia di cui sopra, stop.


Anche in questo caso si ricade nella nostalgia giurassica. Adesso Telecom ha deciso di strappare un’altra pagina dell’elenco dei ricordi.
Non ci resta che la cabina elettorale. Dove è lecito entrare dopo aver consegnato il telefono.

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