Anche il Csm deve ammettere: «Un giudice su tre lavora poco»

RomaQuante sentenze deve scrivere in un anno un giudice per essere ritenuto «laborioso»? Vanno bene 150, bastano 120 o anche 100 sono sufficienti? Per dargli un giudizio positivo di professionalità gli si può imporre di chiudere un processo in 2-3 anni? E i pm, in quanto tempo devono terminare le indagini, come si valutano i loro provvedimenti?
In queste ed altre affannose domande si dibatte esattamente da un anno il gruppo di lavoro del Csm che deve stabilire gli standard di produttività dei magistrati, in base al nuovo ordinamento giudiziario. E non ne viene a capo. Troppe difficoltà, reticenze, diffidenze, resistenze.
Un dato significativo emerge però dalla prima relazione, presentata a luglio alla IV Commissione: oltre il 30 per cento delle toghe deve rimboccarsi le maniche e lavorare di più. Alzare la produttività è un imperativo nel settore civile, dove il lavoro degli esperti è più avanzato e ci si orienta a fissare una soglia minima di 100-110 sentenze. Nel penale la situazione è sempre critica, ma si procede con molte più difficoltà, perché il settore è meno uniforme, i provvedimenti più diversificati e più difficili da valutare.
Gli standard di rendimento di un magistrato dovevano arrivare nel 2008, ma solo a gennaio 2009 si è insediato il gruppo di lavoro, il cui incarico scade a marzo. Allora, sarà presentata la relazione finale, per avviare una sperimentazione in alcune città-campione e applicare i primi standard di produttività.
Ma gli scogli non mancano. La maggioranza dei componenti del gruppo punta a far slittare tutto: prima di partire ci vorrebbe, per così dire, un supplemento d’indagine. Insomma, continuare ad andare in giro per tribunali, corti e procure d’Italia a raccogliere i dati perché, dicono, quelli informatizzati dal ministero sono insufficienti e poi, «vanno letti sul posto». Così, i tempi rischiano di allungarsi molto, mentre le correnti litigano tra loro. Una minoranza insiste nel passare alla fase sperimentale e si dovrà vedere che cosa deciderà il plenum di Palazzo de’ Marescialli.
Il problema è che il Csm scade a giugno e le toghe sono in piena campagna elettorale, con candidati che fanno parte anche del gruppo di lavoro e polemiche connesse.
Inutile dire che ogni categoria è allergica alle valutazioni e scegliere proprio questo momento per una svolta sugli standard di produttività, potrebbe essere molto impopolare. Le correnti, poi, temono di perdere potere. Definire un sistema oggettivo e su scala nazionale di valutazione del singolo magistrato (ora la laboriosità viene giudicata in confronto con i colleghi d’ufficio e sulla base dell’opinione del capo) limiterebbe enormemente la loro capacità di influire sulla carriera delle toghe. Ecco perché rinviare ogni decisione a dopo le elezioni sarebbe utile. È anche vero che nella base delle toghe serpeggia da tempo una forte insofferenza verso lo strapotere delle correnti e a molti gli standard di rendimento appaiono come una liberazione. La moderata Magistratura indipendente intende cavalcare questo sentimento e premere perché si approvino subito gli indici di produttività e si parta con una prima applicazione.
Molti più dubbi ha Magistratura democratica, che ha proposto «standard al buio»: non farli conoscere dal magistrato per evitare che i più stakanovisti riducano l’impegno. E, almeno in una prima fase, insisteva che la valutazione dovesse basarsi, più che sul numero delle sentenze sui tempi, fissando dei tetti per i processi da «imporre» ai giudici. Ironia della sorte, ora la corrente di sinistra si trova a spalleggiare la lotta di Anm e del suo partito di riferimento, il Pd, contro il ddl della maggioranza che fissa, appunto, i tempi del «processo breve».


Nel gruppo di lavoro si discute molto di carichi pendenti per ogni magistrato, di sentenze più o meno «pesanti», di tipi di ordinanze, di qualità del lavoro che potrebbe scadere per inseguire la quantità. E la battaglia per arrivare agli standard è sempre più incerta.

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