Federico Guiglia
Ha il numero di un tram - 194 - ma la forza irresistibile di un totem: guai a dubitare della legge sullaborto, che pure è solo una legge fatta dagli uomini. È solo la libera e umana valutazione di 915 parlamentari secondo lo spirito e le conoscenze scientifiche del tempo, ossia di ventisette anni fa. E neppure la successiva approvazione dei cittadini, convocati al referendum dell81, cioè di ventiquattro anni fa, può contribuire alla divinizzazione del mito. Perché anche loro agirono sulla base del sapere e delle sensibilità dellepoca, di unaltra epoca. Il fatto che la legge abbia avuto il consenso prima del legislatore e poi del popolo sovrano, non la pone al riparo da sempre possibili revisioni di generazione in generazione. Altrimenti, bisognerebbe concludere che non tutte le legislature godano della stessa legittimità, o che alcune di esse abbiano il diritto più di altre di fare (o disfare) le leggi della Repubblica. Ma chi lo stabilisce, chi può arrogarsi il potere di decidere il «giù le mani» da questa o quella norma del Parlamento? Sarebbe come se il principio democratico si potesse applicare su tutti i temi, fuorché alcuni. Come se la politica potesse intervenire in ogni ambito, per carità, - compresa la Costituzione, modificata in modo radicale per ben due volte (2001 e 2005)! -, fuorché in alcuni ambiti-bandiera. Oggi laborto, domani il nucleare, dopodomani il finanziamento pubblico ai partiti o le leggi elettorali: tutte questioni, guarda un po, ciclicamente sottoposte al giudizio degli italiani, e il cui giudizio è stato non di rado disatteso o perfino stravolto proprio dal legislatore. E la volontà dei cittadini avrebbe dovuto essere rispettata almeno per i cinque anni consecutivi dalla celebrazione del referendum nei quali lo stesso referendum, per legge, non può essere riproposto. Ma trascorso tale periodo, perfino questo piccolo e ragionevole quinquennio di intoccabilità non vale più.
In realtà non esiste, non può esistere una «zona franca» sulla quale il Parlamento non possa esprimersi o possa esprimersi una volta ogni ventisette anni, secondo un malinteso Ipse dixit della modernità. Cambiano i costumi, cambiano i sentimenti, le opinioni, i risultati della ricerca mondiale e pertanto le leggi, anche quelle italiane, devono poter camminare col passo dellattualità.
Eppure, un approccio vetero-ideologico ancora spinge a ritenere immutabili traguardi raggiunti decenni fa. A tal punto, che la pur nuovissima legge sulla fecondazione artificiale è stata subito sottoposta a referendum da quanti la consideravano e la considerano unodiosa furbizia per intaccare il totem, cioè la 194. Ma non sarebbe più semplice riconoscere, con pragmatico spirito liberale, difetti e virtù della legge medesima, e pertanto cercare di «migliorarla», adattandola al nostro tempo? Non sarebbe più saggio ammettere, finalmente, che anche la divinizzata 194 è solamente una legge dello Stato, una ragionevole legge dello Stato che però ha bisogno di adeguarsi alle molte novità sulla vita e quindi sul diritto alla vita sopraggiunte nella nostra epoca? Non è paradossale questatteggiamento fideistico di chi, per converso, non perde occasione per sottolineare con orgoglio la propria laicità? Sembra quasi che la tanto rivendicata cultura illuminista non illumini soltanto il dibattito sulla 194; che tale cultura si spenga davanti ai nuovi dubbi dei contemporanei, seguendo la logica del «senza se e senza ma», che non può animare la società delle responsabilità.
Grottesco, poi, attribuire ai cardinali la messa in discussione di una legge su cui non hanno né potrebbero avere alcun potere legislativo. Che dei non credenti si facciano tanto suggestionare dalle semplici parole di chi crede, è patetico. E forse simpatetico.
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