(...) un ulteriore motivo per andare a vedere Moscheta, se non lavete ancora visto (il testo di Ruzante resta in scena alla Corte fino al 7 dicembre, ad eccezione di lunedì, tutti i giorni alle 20,30 e la domenica alle 16).
Il motivo non sono i costumi e le scene di Guido Fiorato che pure sono meravigliose, con addirittura un piccolo fiume costruito al centro del palco del teatro di Corte Lambruschini. Un capolavoro, poi, è il fondale con giochi di luci e ombre che diventano quasi commoventi se visti in controluce. E il motivo non è nemmeno la straordinaria interpretazione di Tullio Solenghi, su cui avevo un pregiudizio negativo, ampiamente superato dallo spettacolo, di Barbara Moselli e di Maurizio Lastrico che continuare a considerare come «uno di Zelig» sminuisce, perchè è davvero un ottimo attore.
Qui, però, non parliamo di teatro. Credo che lo straordinario valore di Moscheta e di Ruzante, sia nella sua lezione. Mai così attuale come in questi giorni in cui il voto degli italiani è sostanzialmente commissariato, visto che al governo non ci sono politici eletti nelle urne (e nemmeno politici sconfitti nelle urne come è accaduto in passato con i due ribaltoni, se è per questo), ma soprattutto visto che in questi giorni si parla una lingua che non è quella della chiarezza e della semplicità. Che non si vive in un mondo dove chi vince, vince; chi perde, perde; e chi non partecipa, non partecipa.
Invece, nel nostro mondo questo non succede. Qui, chi vince, non vince; chi perde, non perde; e chi non partecipa, partecipa. E allora ascoltate un po la bellissima lezione di chiarezza e di pulizia di linguaggio che ci viene da Ruzante, dalle sue parole «da masticare», dai suoi suoni onomatopeici, dal suo ritmo che corre e ansima e si ferma e poi corre ancora, dal suo anticipare il grammelot, quella straordinaria lingua inventata e resa famosa da Dario Fo che somma dialetti padani e italiano, spagnolo e francese, onomatopee e linguaggio delle emozioni, volgarità e lingua del popolo. Ed è proprio Dario Fo - che tutto può essere considerato tranne che un servo della reazione berlusconiana in agguato - a raccontare la lingua di Ruzante, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel: «Il riso non piace al potere». E Fo, citato da Repetti, spiega benissimo: «Ruzante era disprezzato dai letterati del suo tempo perchè portava in scena il quotidiano, la gioia-disperazione della gente comune, lipocrisia e la spocchia dei potenti, la costante ingiustizia».
Ecco, è chiaro che nè Dario Fo, nè Carlo Repetti, nè tantomeno Ruzante sanno nulla del governo Monti e della democrazia - di fatto - sospesa nel nostro Paese, con un esecutivo non eletto dal popolo. Ma ci piace pensare che la lezione linguistica che arriva dal palco della Corte in questi giorni, vada anche alla politica italiana. In un Paese dove il governo è di Dotti, medici e sapienti - per citare la canzone di Edoardo Bennato con cui Paragone ha aperto, chitarra in spalla, la scorsa puntata dellUltima parola - sarebbe sciagurato dimenticare che cè un popolo che parla unaltra lingua, che aspira altre aspirazioni, che vive in un altro mondo.
Ecco, noi del Giornale - insieme agli organizzatori Matteo Rosso, Gianni Plinio e Marco Melgrati e con ladesione del nostro direttore Alessandro Sallusti - vogliamo semplicemente parlare la lingua del popolo e non quella dei dotti, medici e sapienti. Ruzante, (che qui vi presento, per comodità, già tradotto in italiano), dice: «Non è più bello dire mi che io? Non è più bello dire una vacca che una giumenta? Non è più schietto dire un castrone piuttosto che un carniero, come dicono gli spagnoli? Chi canchero capirebbe che un carniero è un castrone e una giumenta è una vacca? Canchero ai carnieri e alle giumente! Da quando in qua (lo spagnolo) sarà una lingua più bella della nostra?».
E ci piacerebbe vivere in un mondo in cui vacca si dice vacca.
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