Anomalie nei contratti d'affitto di Montecitorio

Non ci sono solo i 46 milioni l’anno buttati per prendere in locazione i palazzi. Dalle carte spunta pure un intreccio di clausole capestro accettate senza fiatare. Gli onorevoli-segugi sbottano: "Che spreco, tanto valeva comprare altri immobili"

Anomalie nei contratti d'affitto di Montecitorio

Pier Francesco Borgia - Gian Marco Chiocci

Roma - Sono oltre 60 anni che i deputati non aumentano. Eppure gli spazi «necessari» al loro lavoro negli ultimi tre lustri si sono praticamente decuplicati. Ed è su questa nuova e urgentissima necessità che ha fatto la sua fortuna l’immobiliarista Sergio Scarpellini. Dalla sua Milano 90 la Camera dei Deputati ha preso in locazione immobili per oltre 12mila metri quadri. E solo quest’anno spende ben 46 milioni di canone.

Il rapporto tra Scarpellini e Montecitorio non è sempre stato idilliaco. Dal 1997, l’anno del cosiddetto Marini 1, il primo contratto stipulato per l’affitto dell’omonimo palazzo di via del Tritone, ha avuto i suoi alti e i suoi bassi. Anzi, una volta è finito addirittura ai ferri cortissimi delle vie legali, come quando è intervenuto addirittura il Tribunale di Roma per sciogliere un dubbio interpretativo su una clausola di uno dei contratti tra la Milano 90 dell’immobiliarista romano e la Camera dei deputati. Una battaglia persa, alla fine, da Montecitorio. La Sesta sezione civile del Tribunale di Roma ha infatti deciso, il 19 gennaio del 2009, il rigetto della domanda avanzata dall’Avvocatura generale dello Stato per conto della Camera dei deputati riguardo all’articolo 13 dei quattro contratti di affitto stipulati con la Milano 90. Qual era il problema? L’articolo 13 riguardava della possibilità da parte del locatario di acquistare l’immobile con il prezzo fissato dai parametri dell’Ufficio tecnico erariale e scontato delle annualità di pigione già pagate. Il tribunale, come detto, ha rigettato la domanda. «Le parti - è scritto nella sentenza - non possono aver voluto riconoscere alla Camera dei Deputati un diritto di opzione». Al punto 3 dell’articolo 13, infatti, è scritto a chiare lettere che «la Milano 90 srl avrà facoltà insindacabile di accettare o meno detta proposta dandone comunicazione nei 90 giorni della sua ricezione».

È davvero singolare dilungarsi per due pagine di contratto per elencare tutti i diritti che la Camera ha di avanzare opzioni d’acquisto e poi buttar lì una clausola in cui si dice in buona sostanza che il padrone di casa ha l’ultima parola su tutto. Ma come si era arrivati davanti al giudice? In un documento del Collegio dei Questori di Montecitorio, protocollato il 6 giugno del 2007, viene annunciata la decisione da parte della Camera dei Deputati di adire alle vie legali proprio per la questione del controverso articolo 13 del «Marini 2». Nello stesso documento si chiarisce che è dal giugno del 2005 che i parlamentari mugugnano su un contratto considerato poco opportuno. Un tipo di contratto limato dal tempo e dall’esperienza. Se per il «Marini 1», infatti, i legali della Milano 90 non avevano fatto precisa menzione all’insindacabilità delle decisioni del proprietario, con i nuovi contratti si cambia. Così che non è possibile alcuna disdetta da parte dell’inquilino (che deve pagare 9+9 anni di affitto). Le ragioni di questa clausola le spiega lo stesso Scarpellini al Sole 24 Ore del 13 ottobre: per rientrare dalle spese sostenute per l’adeguamento degli immobili alle esigenze lavorative dei parlamentari, il contratto di nove anni non era sufficiente. Da qui l’esigenza, poi espressa da una clausola precisa, di rendere impossibile la loro risoluzione anticipata.

Nel luglio ’98 viene siglato il nuovo accordo per il cosiddetto «Marini 2», un complesso immobiliare compreso tra piazza S. Claudio, via del Tritone e via del Pozzetto. Anche qui è presente la possibilità di disdetta (articolo 5.2). La Camera dei deputati però è generosa e sensibile con le necessità del suo padrone di casa. Il 17 dicembre spedisce una missiva alla Milano 90 srl dove mette per iscritto la sua rinuncia alla facoltà di disdetta. In buona sostanza la società di Scarpellini aveva mandato una lettera per chiedere un impegno preciso a non avvalersi di quell’articolo del contratto e la Camera, con una tempestività davvero ammirevole, risponde lo stesso giorno dicendo che il collegio dei Questori (i deputati responsabili dell’amministrazione di Montecitorio) rinunciava alla facoltà di disdetta. Una facoltà implicita, va detto per inciso, in ogni contratto di affitto di locali a uso ufficio.

Le incongruenze non finiscono qui. E il buonsenso resta fuori da un altro dettaglio che già abbiamo segnalato sul Giornale di ieri. Quando abbiamo ricordato come, al momento del primo contratto con la Milano 90, i locali da affittare non potessero essere ceduti come uffici. La destinazione d’uso impediva, di fatto, l’accordo tra le parti. Ecco però in sede di contratto, l’ennesimo schiaffo al buon senso. Invece di rifiutare l’offerta perché non conforme alla legge, la Camera dei deputati accetta di prendere in affitto i locali e fa mettere nero su bianco nel contratto (articolo 14.1 e 14.2) che è consapevole che i locali nei quali si appresta a entrare non dell’attuale destinazione d’uso delle porzioni immobiliari hanno una destinazione d’uso diversa da quella necessaria. Ma non si limita a questo. Si dichiara addirittura disposta ad attivare «ogni necessaria procedura di legge per conseguire il cambio di destinazione d’uso».

Insomma un inquilino davvero solerte e disponibile, che non solo non fa una piega nello scoprire che la destinazione d’uso dei locali da lui richiesti è diversa da quella cui aveva pensato,

ma promette addirittura di attivarsi al posto del proprietario per farla modificare. Non c’è che dire, la Camera dei deputati è l’inquilino che ogni proprietario di immobili desidererebbe avere.
(2 continua)

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