Dopo Google e Yahoo anche la Apple, impresa icona del «politically correct» americano, cede alla censura cinese. La società di Cupertino in California, attraverso la China Unicom che da due mesi distribuisce nel Paese asiatico i modelli iPhone del gruppo, ha di fatto bloccato laccesso a cinque programmi software relativi al leader spirituale tibetano Dalai Lama e alla leader degli uiguri Rebiya Kadeer.
Se quindi un possessore di un iPhone made in China provasse a impostare la ricerca su «Dalai», il risultato finale sarebbe nulla, al contrario di quello che invece succede allo stesso apparecchio in unaltra parte del mondo che non sia la Cina. La scoperta della censura ha fatto andare su tutte le furie Reporter senza Frontiere, che ha chiesto spiegazioni al colosso dellinformatica Usa: «Gli abbonati delliPhone in Cina - si legge in una nota - hanno il diritto di sapere a che cosa non hanno accesso libero. Il gruppo americano si unisce al club delle imprese che applicano la censura nel Paese: una grande delusione da parte di un gruppo che ha basato la sua campagna pubblicitaria sul pensa diverso e che si ritiene creativa». Il portavoce di Apple, Trudy Muller, ha risposto in una e-mail alla mancata vendita delle «application» proibite in Cina: «Ci atteniamo alle leggi locali, e non tutte le application sono possibili in tutti i paesi». Insomma questione rimandata, un po come è sempre avvenuto in questi casi.
In passato anche i più celebri motori di ricerca, come Google, si sono trovati a fare i conti con la censura cinese, che non risparmia affatto il mondo di internet. Anzi. Le parole «proibite», come Dalai Lama o Tibet, rimangono tali: inutile digitarle, il risultato sarà una pagina misteriosamente «inesistente». Non solo. Se si prova a cercare unimmagine del Dalai Lama su Google Cina, il risultato sono oltre cento fotografie di cui però una soltanto ritrae davvero il simbolo del Tibet. Oltretutto ritratto giovanissimo, mentre incontra dei dirigenti cinesi, prima del suo esilio.
Insomma una ricerca del tutto infruttuosa, come spiegava anche un articolo del New York Times dal titolo significativo: Google adapts to China, cioè «Google si adatta alla Cina». Il colosso dei motori di ricerca è infatti accusato di essere fra i più «collaborativi» con le richieste di Pechino. Gli input dei dirigenti cinesi sarebbero puntuali nel determinare quali vocaboli, una volta inseriti su Google, non debbano poi corrispondere a informazioni, link ad altri siti o immagini che le autorità considerano off limit. Fra cui, appunto, il leader spirituale buddista. Del quale, stranamente, non si possono vedere foto se si prova a cercarle da Pechino. Ma se ci si sposta fuori dalla Repubblica popolare, un utente che possa effettuare una ricerca senza filtro ne potrà trovare oltre duemila.
In passato anche altri colossi dellinformatica sono finiti sotto accusa per aver aiutato il governo cinese ad applicare la censura.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.