Archeo-revisionismo

Roma, autunno del 1931. Mussolini, in basco e pantaloni alla zuava, batte alacremente col piccone, gettando da parte tegole frantumate e mattoni. Sono cominciate le demolizioni nella zona dei Fori per costituire il tracciato di quella che verrà chiamata la Via dell’Impero, celermente ribattezzata nel dopoguerra Via dei Fori Imperiali nell’ambito della «defascistizzazione» della capitale.
Problematica la nascita di Via dell’Impero, scenografico asse viario che collega piazza Venezia al Colosseo, riscoprendo il cuore monumentale della città imperiale. Esaltata dal celebre scrittore e critico d’arte Ugo Ojetti come «una di quelle luminose vie romane lunghe non chilometri ma millenni», «impresa meravigliosa» secondo l’allora direttore dell’Istituto Archeologico Germanico Ludwig Curtius, la strada anni dopo riceverà più critiche che osanna.
Esempio dell’attività indefessa di quel «piccone demolitore» fascista che negli stessi anni abbatteva la Spina di Borgo per creare Via della Conciliazione, la Via dell’Impero (nata anch’essa dalla demolizione di un antico e caratteristico quartiere) fu considerata un’espressione della retorica «imperiale» del fascismo. Il severo Antonio Cederna è stato uno dei critici più inflessibili: la via non è che il frutto di quella «eterna fissazione sventratoria che si afferma subito dopo l’Unità». Cederna - uno dei padri fondatori di «Italia Nostra» - attacca duramente l’ostinazione degli archeologi e il loro «occhio radiografico puntato esclusivamente sul rudere nascosto... L’ammirevole stratificazione dei secoli... cioè la Roma medievale, rinascimentale, barocca e neoclassica... fu considerata alla stregua di un deposito alluvionale da rimuovere e setacciare».
Dilemma antico che da sempre divide archeologi, urbanisti, storici dell’arte. È legittimo eliminare testimonianze secolari per riportare alla luce i reperti più antichi? O è meglio rispettare la naturale stratificazione operata dai secoli, che riutilizzano, riadattano, trasformano, ma anche cancellano? È preferibile veder «giganteggiare i monumenti millenari nella necessaria solitudine» (come proclamava Mussolini) o indovinarli appena sotto le sovrastrutture successive? La risposta probabilmente non arriverà mai. E gli archeologi possono solo sperare in eventi «fortunati» come le bombe alleate che nell’ultima guerra spianarono la sommità di Palestrina portando alla luce i grandiosi resti del tempio della Fortuna Primigenia. Nel frattempo ripercorriamo la Via dell’Impero nei giorni esaltanti della sua nascita, guidati da una mostra appena inaugurata ai Musei Capitolini («Via dell’Impero. Nascita di una strada», fino al 20 settembre, catalogo Palombi, informazioni al numero 06 0608). Naturale prosecuzione della mostra dello scorso anno («L’invenzione dei Fori Imperiali. Scavi e demolizioni»), la rassegna si avvale dello sterminato materiale documentario conservato negli archivi del Museo di Roma e degli stessi Musei Capitolini. Sono esposte sessanta delle settecento fotografie raccolte in sette enormi album, una documentazione iconografica che testimonia come la scelta demolitrice non fu indolore. Il Governatorato di Roma (nel 1931 era governatore il principe Francesco Boncompagni Ludovisi) affidò ai migliori professionisti romani dell’obiettivo (Filippo Reale, Michele Valentino Calderisi, Cesare Faraglia) il compito di fotografare non solo gli scavi e gli sterri ma anche gli edifici e le chiese che venivano abbattuti. Contemporaneamente chiese a una serie di pittori (Maria Barosso, Lucia Hoffman, Giulio Farnese, Odoardo Ferretti, Vito Lombardi) di eternare sulla tela gli angoli più pittoreschi di una Roma nobiliare e popolana al tempo stesso che scompariva per sempre.
Consenso e nostalgia è il doppio registro della grandiosa operazione urbanistica che sancisce la nascita della «nuova Roma» ma dice addio a due chiese medioevali, assiste allo spianamento della collina della Velia e alla cancellazione della cinquecentesca via Alessandrina.
È stato troppo alto il costo delle demolizioni per riscoprire i Fori e aprire Via dell’Impero? Umberto Broccoli, sovraintendente ai Beni culturali del Comune di Roma non si sbilancia: «Alla provocazione di smontarla - dichiara - risponderei: quale livello salvare? Quello del Foro di Cesare, Augusto o Traiano? Si badi che per ogni Foro corrisponde una discesa in metri».


La scelta, spesso drammatica, nasce proprio dalla natura delle nostre città che prima di essere romane sono state greche, sabine, picene, celtiche. E poi sono state comunali e papali e principesche. Uno strato sopra l’altro. E scavando non si scende di metro in metro ma di millennio in millennio.

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